Copertina: ESTOFADO DE ORO La statuaria lignea nella Sardegna Spagnola – Cagliari, Janus 2001

ESTOFADO DE ORO IN SARDEGNA

L’Estofado de oro è una tecnica particolare, di ispirazione catalana, frequente nella Sardegna del XVI e XVII secolo, ed ha una particolare importanza per la storia dell’arte in Sardegna, in quanto descrive sul legno la particolare tecnica del fondo oro, in cui sono impressi i disegni dei fastosi costumi dell’epoca.
“Con Dios se habla en espagnol”…L’oro di quel sole che non tramontava mai, riverbera la gloria radiante dell’Impero anche nelle chiese della Sardegna spagnola. Vesti di santi e Madonne e corazze d’arcangeli rifulgono preziose di broccati.

 

Profilo storico della Sardegna fra il XVI e il XVII secolo

Nonostante le condizioni economiche e sociali della Sardegna si erano particolarmente aggravate, non solo per l’esosità fiscale del governo e del sistema feudale ma anche le continue pestilenze, carestie e incursioni barbaresche che puntualmente cominciarono ad affliggere l’Isola sin dalla metà del Cinquecento, si può dire che la produzione artistica in questo secolo e nel successivo, non subì sostanziali contraccolpi.
Le famiglie feudali distaccate dall’orbita iberica si sentivano sempre più sarde e vedevano sempre più nel viceré e negli altri funzionari che erano inviati dalla Spagna un correttivo alla loro potenza.
Tuttavia, in questo clima, denso di tragiche conseguenze per la storia della dell’Isola, il pericolo mussulmano restava un problema particolarmente serio e di difficile soluzione nonostante i vari provvedimenti adottati dalla Corona in tempi e modi diversi.
Le prime incursioni avevano avuto inizio nel 1509 con un attacco all’abitato di Cabras, per ripetersi cinque anni dopo a Siniscola e nel 1515 nuovamente a Cabras che, per il risarcimento dei danni, venne esentato dai tributi regi e feudali. Negli anni seguenti furono colpiti i centri del Sulcis e della Gallura. Nel 1522 Castelsardo, allora Castelgenovese, ed alcuni centri dell’Oristanese.
Per porre fine a questa situazione, Carlo I organizzo, nel luglio del 1535, una spedizione navale contro Tunisi, uno del maggiori capisaldi mussulmani del nord Africa, che però non portò ad apprezzabili risultati tanto che le scorrerie ripresero poco tempo dopo in tutto il Mediterraneo occidentale.
Ma, ormai, per la Sardegna andava profilandosi un nuovo capitolo della sua storia che, nel primi anni del secolo successivo l’avrebbe definitivamente allontanata dal mondo iberico al quale era rimasta ininterrottamente legata sin dal 1323.
Comunque, a prescindere da queste osservazioni resta il fatto che uno dei pochi aspetti positivi che caratterizzò l’Isola fra Cinquecento e Seicento e, in modo particolare l’ultimo scorcio di quest’ultimo secolo, è da ricercare, soprattutto, nella vivace produzione artistica che si era venuta a creare proprio in quegli anni, specialmente nelle principali città regie dove, ancora oggi, ritroviamo le espressioni più alte e significative, vere e proprie testimonianze visive della nostra cultura, che ha sempre cercato di conservare una sua identità e una sua dignità anche nei momenti più controversi e discussi della sua lunga e tormentata storia.

(Giuseppe Spiga in Estofado de Oro)

La scultura devozionale nel Meridione sardo in età moderna - La tecnica

In questo fervido clima culturale, tipico della Controriforma (vedi), le esigenze di persuasione e di propaganda della fede a livello popolare favoriscono un maggiore sviluppo della statuaria lignea, che soddisfa tali necessità con le sue possibilità di resa naturalistica, teatrale, pittorica. In questa epoca i limiti imposti dall’utilizzo di un unico blocco ligneo, adeguato alla rigidità e alla compostezza dei secoli precedenti, mal si adattano alle nuove capacità espressive richieste dalla committenza; si diffonde pertanto l’uso di scolpire con l’assemblaggio di varie parti staccate, lavorate separatamente e poi montate ad incastro o con l’uso di chiodi di ferro. Per mascherare le giunture e le diverse venature del legno si rende necessario coprire le superfici con uno strato preparatorio di gesso e colla, o impannare le parti giuntate o l’intera superficie scultorea. Questo è dimostrato dalle copiose testimonianze, solo in minima parte conservatesi nell’Isola fino ai nostri giorni per molteplici ragioni, dal degrado, agli incendi, dai furti, all’interdizione da parte dei vescovi e la conseguente distruzione ecc.
Esemplari a questo proposito sono la Madonna con Bambino di Sedilo e il San Giorgio a cavallo di Milis.
Il legno era materia prima presente nell’Isola, immediatamente disponibile e dai costi contenuti che, sebbene povero, con adeguato trattamento poteva imitare i materiali più nobili come il bronzo e l’oreficeria; erano attive inoltre numerose botteghe artigiane capaci di soddisfare le richieste della committenza.
La scelta dell’essenza lignea pregiata (tiglio, pioppo, quercia, pino, pino rosso, ciliegio, noce carrubo ecc.) priva di difetti, di solito da alberi abbattuti nella fase vegetativa di riposo cioè autunno, con lunga stagionatura durata anni, si giungeva alla realizzazione di una statua lignea intagliata. Spesso per accorciare il periodo della stagionatura ed evitare le spaccature le legno, si procedeva allo svuotamento del midollo, cioè il cuore del tronco dove passa la linfa. Nonostante l’abbondanza di conifere nei boschi sardi in epoca passata, questo tipo di legno non veniva utilizzato in scultura perché ricco di sostanze resinose che col tempo avrebbero macchiato la cromia e creato problemi di adesione degli strati pittorici.
La doratura era una fase estremamente delicata a cui erano preposti degli specialisti. Solitamente nella statuaria sarda di quest’epoca troviamo attestata la tecnica a bolo, un particolare tipo di argilla di vario colore (solitamente rosso-aranciato o bruno) che veniva steso sulla preparazione a gesso, addizionato con collanti specifici per servire da base alla stesura della foglia d’oro, questa, d’oro zecchino perché tratta dalla spianatura di una moneta, poteva essere di spessore diverso e veniva brunita, cioè lucidata, con una pietra dura (agata, diaspro o altro) o con un dente di lupo, trattamento che serviva anche per una perfetta adesione al supporto.
E’ importante ricordare che da un fiorino era possibile ricavare dalle centotrenta alle centocinquanta lamine delle dimensioni di un decimetro quadrato; naturalmente la sottigliezza della foglia era a scapito della durata nel tempo perché le periodiche puliture delle superfici pian piano riducevano lo spessore dell’oro, mettendo in evidenza il bolo sottostante.
La definizione di estofado ci fa capire che l’oro veniva steso sulla superficie, preventivamente preparata, poi uniformemente ricoperto con il colore che veniva successivamente asportato con una punta d’osso per mettere in luce l’oro sottostante così da tracciare il disegno prescelto.

(Lucia Siddi in Estofado de Oro)

 

Le botteghe

I numerosi dati d’archivio finora raccolti consentono di ricostruire con una certa verosimiglianza la vita sociale degli artigiani del legno; i rapporti lavorativi, quelli interfamiliari, le diverse specializzazioni dell’attività lavorativa, la loro provenienza.
Notiamo innanzitutto la loro massiccia presenza soprattutto nel quartiere della Marina (Cagliari), certamente il più idoneo per la sua vicinanza al porto a favorire le attività commerciali e lavorative.
I datori di lavoro sono spesso identificati con denominazioni diverse: fusters, caxers, escultors, torners, entalladors, mestres de carros e de axa, ma spesso ad esse non sempre corrisponde una specifica qualifica che ne distinguesse l’attività lavorativa, nonostante gli statuti delle corporazioni delle arti e mestieri fossero abbastanza chiari in proposito. Tutti gli artigiani, già dal ‘400, si erano liberamente associati in corporazioni, che acquistavano valore legale in seguito all’approvazione dello statuto da parte dell’autorità regia; in esso venivano precisate tutte le norme relative ai doveri, assistenziali e di lavoro, nonché le sanzioni, spesso molto gravose, che venivano comminate in caso di concorrenza sleale.
Le associazioni corporative avevano anche un significato religioso: si affidavano alla Madonna e ai santi protettori e si riunivano nelle chiese o nei conventi, in apposite cappelle per svolgere le proprie funzioni alle quali gli iscritti erano tenuti a partecipare. In questo regime corporativistico non tutti venivano ammessi a sostenere gli esami, se non i figli dei maestri che potevano farlo anche senza aver concluso il periodo di apprendistato. Chi non riusciva a superare le prove poteva diventare un semplice operario salariato, sottoposto al maestro, senza bottega in autonomia di lavoro.
A questo proposito possiamo ricordare alcuni esempi come quello dello scultore Scipione Aprile, attivo nel quartiere di Marina, che nel 1582 prese come apprendista di bottega il figlio quindicenne di Nanni Usala proveniente da Ballao. Ancora prima, nel gennaio 1566, il fuster Michele Cau, residente invece nel sobborgo di Villanova, prese nella sua bottega il sedicenne Giacomo Sexi per sei anni senza corresponsione.

Sono spesso documentati rapporti di affari, collaborazioni, prestiti di denaro tra i vari artigiani: Michelangelo Mainas, nel 1583 lavora per un anno con Ursino Bonocore; nel 1600 riceve un prestito dal pittore Giuli Adato e nel 1603 si impegna per il suocero a dorare un tabernacolo in cambio di una statua di San Sebastiano.

L’entallador Giacomo Maxia collabora spesso con il doratore Galceran Sequer in diverse occasioni tra il 1703 e il 1707.
Nel 1603 J. A. Puxeddu acquista per ben 1500 lire gli strumenti e gli oggetti della bottega dell’ormai defunto pittore salernitano Giulio Adato, pochi mesi dopo, anche quattro sue botteghe ubicate nella Costa, attuale Via Manno.
Gli artisti non erano liberi di realizzare le opere a loro piacimento, erano invece strettamente vincolati al gusto del committente: per esempio il falegname Vincenzo Sasso nel 1632 realizza insieme al sunnominato J.A. Puxeddu un tabernacolo per la parrocchiale di Lanamatrona, secondo il disegno fornitogli  dal decano della cattedrale di Ales.
Gli artigiani provenivano da varie città e stati diversi; è documentata la presenza a Cagliari di tanti maiorchini, così come a Maiorca è stata rilevata la presenza di numerosi sardi, soprattutto alla fine del Cinquecento, francesi e catalani, siciliani di Palermo e Trapani, napoletani, genovesi, toscani, romani, lombardi, prevalentemente concentrati nel popoloso quartiere di Marina

(Lucia Siddi in Estofado de Oro)

Gli influssi

Parafrasando il detto Tutte le strade portano a Roma, nel nostro caso potremmo dire Tutte le strade portano a Napoli sia per quanto attiene i confronti più pertinenti per l’intaglio e le sue caratteristiche, sia per quanto riguarda la tipologia e le tecniche decorative.
Le opere che giungevano da Napoli erano particolarmente apprezzate in Sardegna, tanto che gli scultori di origine partenopea residenti nell’Isola veniva richiesto di fare da tramite per l’acquisto di sculture direttamente nel capoluogo campano: La città era infatti un grande centro di produzione artistica, crogiolo di culture diverse che convivevano mescolando i loro apporti.
Nel maggio del 1611 per esempio fu commissionata Napoli una immagine della Madonna dormiente con sei angeli dorati per la parrocchiale di Mogoro, andata purtroppo dispersa.
Ma qual è l’origine della particolare tecnica denominata con termine spagnolo estofado de oro?
Si può avanzare l’ipotesi che essa sia nata a Napoli ma sotto l’influsso dei numerosi artisti fiamminghi e iberici ivi trapiantati; tra i più grandi ricordiamo Pietro e Giovanni Alamanno, Pietro Bilevert, Diego da Siloe, Diego Oronez. Questi scultori in base alla loro tradizione culturale si proponevano di riprodurre fedelmente la realtà, a tale scopo elaborarono una cromia capace di simulare la preziosità dei tessuti dell’epoca, come i damaschi e broccati.

(Lucia Siddi in Estofado de Oro)