DanteDì

Dante Alighieri e la Sardegna

In occasione dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta e in celebrazione del DanteDì, pubblichiamo un approfondimento sui punti di contatto tra le sue opere e la Sardegna.

Dante Alighieri in Sardegna

Nel 1321, settecento anni fa, moriva il Sommo Poeta Dante Alighieri.
Il 25 marzo è il #Dantedì, in occasione del giorno in cui si ritiene abbia avuto inizio il viaggio del poeta negli inferi raccontato nella sua opera più celebre: la Comedìa o Divina Commedia.
Nella Commedia sono presentati personaggi di spicco dell’epoca di Dante che hanno avuto ruoli importanti anche nella storia della Sardegna, come Ugolino della Gherardesca, Branca Doria e Michele Zanche. La Sardegna aveva una posizione strategica tale da essere oggetto di interesse per genovesi, pisani e aragonesi che si contesero il territorio per secoli. Non ci sono però attestazioni di un soggiorno dantesco nell’isola, nonostante il poeta conosca le dinamiche politiche della regione, abbia qualche informazione sul popolo sardo e analizzi la lingua sarda nel De Vulgari Eloquentia.
Ciò nonostante, secondo Giovanni Spano, investigatore acuto e paziente della storia sarda, nella chiesa cagliaritana di San Domenico sarebbe esistita una tavola con il ritratto di Dante attribuita da alcuni a Masaccio, e che nel 1855 sarebbe stata venduta e trasportata in Inghilterra.
1.1: il manoscritto M 76
Una concreta base per la storia della fortuna di Dante nell’isola è invece il codice Cagliaritano M 76, manoscritto della Commedia che quasi sicuramente risale alla prima metà del Trecento e che quindi è tra i più antichi a noi noti. Introdotto in Sardegna, con tutta probabilità, da mercanti toscani, esso appartenne nel Cinquecento alla biblioteca dello storico Gianfrancesco Fara e quindi a quella del giurista Monserrato Rossello che ne fece dono al collegio di Santa Croce, da dove, nel secolo scorso, passò all'università di Cagliari. L'M 76 è un manoscritto membranaceo di 164 carte non numerate di mm. 282 X 202, acefalo e lacunoso. Ogni carta contiene da 37 a 24 versi scritti in una sola colonna, in scrittura gotica, con chiose marginali e postille interlineari. Le chiose in scrittura gotica sono latine sino al c. XXVI dell'Inferno; italiane e in scrittura tarda minuta per il resto del poema. Gli inizi delle cantiche e le capitali d'inizio dei canti sono finemente miniati. Il codice fu edito parzialmente dal Carrara che ne pubblicò le chiose italiane, mentre sono tuttora inedite quelle latine e manca un'edizione diplomatica del testo.
1.2: la fortuna della Commedia in Sardegna
Durante l'età spagnola, che si spinge praticamente sino al XVIII secolo, il gravitare della Sardegna fuori dell'influenza della cultura italiana rese difficile la circolazione della Commedia. La conoscenza di Dante nell'isola riprese nell'Ottocento. Ai primi di questo secolo si pubblicarono a Cagliari due fitti volumi di Lecturae Dantis. Nel 1929, lo scrittore Pietro Casu tradusse la Commedia in sardo (Sa Divina Cummedia in limba salda, Ozieri 1929). Col Novecento, l'attività dantesca nell'isola non è più cessata, interrotta solo dall'ultima guerra, ma subito ripresa nel 1946 dal comitato di Cagliari della "Dante Alighieri", in collaborazione con l'associazione "Amici del Libro" che da quell'anno in poi affida ai maggiori dantisti italiani la lettura della Commedia in Sardegna.

[Sardegna in "Enciclopedia Dantesca" (treccani.it)]

Ugolino della Gherardesca

Lungo il suo viaggio, Dante incontra numerosi personaggi realmente esistiti o meno, suoi contemporanei o vissuti in tempi precedenti.

Nell’Inferno incontra Ugolino della Gherardesca (Pisa 1210 – 1289) (canto XXXII versi 124-139 e canto XXXIII versi 1-78), personaggio di primissima importanza nella politica pisana in Sardegna nell'età di Dante.

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, / e questi è l’arcivescovo Ruggieri: / or ti dirò perché i son tal vicino.(Inferno, canto XXXIII, vv. 13-15)

Poscia che fummo al quarto dì venuti / Gaddo mi si gittò disteso a' piedi, / dicendo: 'Padre mio, ché non mi aiuti?'. / Quivi morì; e come tu mi vedi, / vid'io cascar li tre ad uno ad uno / tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond'io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti / Poscia, più che il dolor, poté il digiuno". / Quand'ebbe detto ciò, con li occhi torti / riprese 'l teschio misero co' denti, / che furo a l'osso, come d'un can, forti» (Inferno, canto XXXIII, vv. 67-78)

Dante collocò il conte tra i traditori politici, probabilmente per la sua posizione vista come poco chiara tra guelfi e ghibellini: nato in famiglia ghibellina, passò alla fazione guelfa grazie a una serie di frequentazioni e ad un'amicizia profonda col ramo pisano dei Visconti, tanto che una delle sue figlie, Giovanna, venne data in sposa a Giovanni Visconti, Giudice di Gallura (un'altra sua figlia, Giacomina, sposò nel 1287 il Giudice di Arborea Giovanni).
Dante, quindi, lo colloca nell'Antenora, la seconda zona del nono cerchio dell'Inferno, dove vengono puniti i traditori della patria: Ugolino, immerso nelle acque gelate di Cocito, appare come un dannato vendicatore, che divora brutalmente la testa dell'arcivescovo Ruggieri (secondo la versione di un cronista suo contemporaneo, che Dante segue, egli avrebbe fatto prigioniero Ugolino con il tradimento: certo è che lo fece imprigionare nella Torre della Muda insieme a due figli e due nipoti, nella quale essi morirono. Il conte Ugolino gli rode la nuca in eterno per aver condannato quattro innocenti a morire con un colpevole. La sua figura nel poema è completamente muta e assente, tanto da sembrare pietrificata nel suo supplizio).

 

2.1 I Gherardesca in Sardegna
Della presenza in Sardegna di Ugolino della Gherardesca si hanno numerose notizie. La Sardegna era oggetto di contesa tra pisani e genovesi dall’XI secolo e nel 1257 i pisani guidati da Ugolino e suo figlio Gherardo riconquistarono Cagliari, alleata con i genovesi, e fecero prigioniero il presidio genovese. Nell'anno successivo, il trattato di Santa Gilla riconobbe ai due Gherardesca il possesso di un terzo del regno di Cagliari su cui Ugolino governò abbastanza bene: per suo impulso, il borgo minerario di Villa di Chiesa di Sigerro divenne una cittadina, e firmò “il Breve di Villa di Chiesa di Sigerro”, un monumento di legislazione civica e mineraria. Ugolino favorì anche la diffusione tra i Sardi del volgare toscano, che apparve per la prima volta nell'iscrizione della cattedrale di Iglesias (nella quale egli è ricordato come signore, re e domino La lapide del conte Ugolino della Gherardesca ritorna alla Chiesa di Iglesias | Ogliastra - Vistanet ) in sostituzione, nell'uso aulico, del latino e del volgare sardo di tradizione giudicale.
I Gherardesca avevano le loro posizioni chiave nel sud, con i castelli della Gioiosa Guardia, di Salvaterra e di Acquafredda; i Visconti, dalla rocca di Monte Acuto, si spartivano il settentrione con i Doria che avevano castelli di Monte Forte, Monte Leone, Rocca Forte, Castel Genovese, Chiaramonti e i Malaspina quello di Serravalle. La presenza di queste famiglie provenienti da oltremare fece penetrare nell’isola qualcosa del costume e della cultura italiana del Medioevo, talvolta rappresentata perfino nelle fantasiose leggende legate ai nomi di queste rocche. I Gherardesca, ad esempio, chiamarono Gioiosa Guardia la loro rocca sulcitana presso Villamassargia: dietro questo nome c'è un'insospettata testimonianza di epopea. Gioiosa Guardia è infatti il nome nel quale Lancillotto trasforma quello di Dolorosa Guardia, la fortezza da lui conquistata, come cavaliere errante, dopo aver sconfitto il castellano saracino, secondo una traduzione cavalleresca diffusa in Toscana della Tavola Rotonda nella versione del Codice Laurenziano di redazione fiorentina, forse del XIV secolo. Se la tradizione biografica di Ugolino della Gherardesca trova riscontro in alcuni documenti storici, la terribile fine del conte, nei suoi tragici aspetti, deve invece la sua fama e la sua diffusione esclusivamente a Dante Alighieri.

Sardegna in "Enciclopedia Dantesca" (treccani.it) Ugolino della Gherardesca - Wikipedia

 

Branca Doria

Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: / elli è ser Branca Doria, e son più anni / poscia passati ch’el fu sì racchiuso». / «Io credo», diss’io lui, «che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni».”  (Inferno, canto XXXIII, vv. 136-141)

Branca Doria (Genova 1233 circa – 1325) era un membro della nobile famiglia genovese dei Doria. Figlio di Nicolò Doria, genovese, e Preziosa di Torres, sarda, della famiglia dei Lacon. Ebbe vari incarichi politici in Sardegna e fu bisnonno di Brancaleone Doria che lottò contro il dominio degli Aragonesi e sposò la giudicessa Eleonora d’Arborea.

Branca Doria compare nel canto XXXIII dell'Inferno di Dante, nella terza zona del nono cerchio, e cioè nella Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti. Nel racconto, Dante si stupisce perché sa che Branca è ancora in vita ("Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni"), ma l’anima di frate Alberigo, con cui stava parlando, gli dice che l’aver tradito (e probabilmente ucciso) Michele Zanche ha comportato la discesa negli inferi dell’anima di Branca Doria mentre il suo corpo si muove sulla terra animato da un diavolo. Dante aveva probabilmente incontrato Branca Doria quando si erano trovati entrambi presso l'imperatore Enrico VII (Arrigo VII) di Lussemburgo, venuto in Italia. Dante vi si trovava per i suoi ideali, Branca Doria per interessi feudali; l'avversione del Poeta a Branca era dovuta anche al fatto che il primo alla corte dell'imperatore era dedito a esporre le sue idee politiche, mentre Branca agiva nell'ombra e mutava a suo favore leggi e princìpi manipolando direttamente la debole volontà del sovrano.

3.1 I Doria in Sardegna:
Genova in quel periodo si batteva con Pisa per il potere sulla Sardegna, e le famiglie particolarmente interessate in questa competizione erano i Doria e i Malaspina.
Nel 1266 i Doria erano padroni di Alghero (che avevano trasformata in una loro città murata), Giave, Monteleone, Castelgenovese (poi Castelaragonese, infine Castelsardo), Casteldoria; delle regioni dell'Anglona, di Ardara, di Bisarcio, del Meilogu, del Cabuabbas, del Nurcara e di due terzi della Nurra. Si erano imparentati con le famiglie giudicali sarde, radicandosi sul territorio. Per questo motivo i Doria, come i Malaspina, erano rimasti maggiormente coinvolti nelle vicende locali.

Gli stessi membri delle due famiglie si erano suddivisi sin dal secondo Duecento in vari gruppi e clan che talora entravano in reciproca competizione. In questa disputa per il potere che vedeva come attori anche membri di una stessa famiglia si inserisce l'episodio che fa di Branca Doria un personaggio infernale della Divina Commedia: l’uccisione del suocero Michele Zanche. Branca aveva sposato la sedicenne Caterina Zanca, dalla quale acquistava diritti sul Giudicato di Torres in quanto figlia di Michele Zanche usurpatore coinvolto nell’uccisione di Barisone III di Torres, e di Bianca Lancia (moglie di Federico II di Svevia) o Adelasia di Torres (dopo la morte di suo fratello Barisone III) già titolare del Giudicato, molto prima del suo matrimonio con Enzo, e che Zanche sfruttò questa situazione prendendo il potere nel Giudicato Turritano. Probabilmente lo stesso Enzo, quando divenne giudice di Torres sposando Adelasia, lo nominò reggente e Zanche non esitò a sfruttare la propria posizione per arricchirsi personalmente barattando le sue concessioni nelle più infamanti maniere: per questo Dante lo pone all'inferno tra i barattieri (XXII canto). Diede in sposa a Branca Doria la figlia Caterina ma Dante sapeva che fu proprio il genero a tradirlo facendolo uccidere durante un banchetto, concludendo così la successione dei giudici turritani e aprendo le porte ai Genovesi.

3.2 L’ascesa di Branca
La regione venne divisa tra i vari membri delle famiglie arrivate dalla Liguria, i Doria, cui centro principale era Alghero e che tenevano CastelGenovese, MonLeone, CastelDoria, Roccaforte, e le terre di Anglona, Ardara, Bisarcio, Meilogo, Capo d'Acque, Nurcare e parte della Nurra, ed i marchesi Malaspina, già padroni di Bosa da essi edificata, che dominarono allora anche i castelli di Burci ed Osilo e le terre di Coghinas, Figulina e Monti.
Nel 1299 Branca Doria chiese a Bonifacio VIII di confermare i suoi diritti sul Logudoro, che potevano essere messi in dubbio dal fatto che la propria madre, Preziosa Lacon, era figlia illegittima: per farsi accettare dal pontefice, essendo ghibellino, si spostò su posizioni filoguelfe grazie al matrimonio tra suo figlio Bernabò (Barnaba) con Eleonora Fieschi, di famiglia guelfa. In questo modo ottenne la legittimazione dei suoi diritti sul Giudicato di Torres.
L'apoteosi del potere di Branca si colloca al momento dell'arrivo di Arrigo (Enrico) VII di Lussemburgo, quando l'imperatore si recò a Genova (1311), e dal quale Branca Doria seppe esaudire molte richieste di riconoscimenti e titoli vari.
Passò tutta la vita a cercare di accrescere ed affermare il potere dei Doria: fu probabilmente Branca ad organizzare il matrimonio di maggior successo per la famiglia, tra la nipote (figlia di suo figlio Bernabò) Violante (Valentina), e Stefano Visconti, della famiglia che rappresentava il partito ghibellino in Italia Settentrionale. Per tutta la vita, Branca si occupò degli affari dei Doria sia nell’isola che nella penisola ma nella vecchiaia si dedicò al Turritano, che stava per essere invaso da Alfonso d'Aragona, infante di Giacomo II. Pur professando fedeltà al re aragonese, Branca comprendeva che, se questi si fosse impossessato dell'isola, sarebbe stata la fine del suo potentato in ascesa: nel settembre 1324, visto frustrato il tentativo di farsi riconoscere i castelli di Montacuto e Goceano, si pose contro l’alleanza sardo-aragonese e tentò di occupare Sassari. Il tentativo fallì e Branca fu probabilmente fatto prigioniero e poi ucciso dai partigiani di Ugone di Arborea (Zurita).
Non gli sopravvisse di molto il figlio Bernabò, da sempre suo braccio destro: il 3 agosto 1325, in un atto notarile rogato a Savona, Branca Doria ed il figlio Bernabò figurano già morti. I suoi discendenti riuscirono però a restare in posizioni di potere ancora a lungo in Sardegna, pur sotto la corona aragonese: il nipote di Branca Doria – figlio di Bernabò Doria – Brancaleone Doria (senior), sposò Isotta Malaspina, del ramo dei Malaspina di Villafranca; quando gli aragonesi conquistarono in Sardegna tutti i possessi doriani, resistette solo il figlio omonimo di Brancaleone Doria, pronipote di Branca Doria, grazie al suo matrimonio con la giudicessa Eleonora d’Arborea e schierandosi dalla parte di Pietro IV d'Aragona, ottenendo dal sovrano la signoria di Castel Genovese (Castel Doria), Monteleone Rocca Doria e delle incontrade di Nurcara, Cabuabbas, Anglona, Bisarcio. In tal modo quest'ultimo retaggio genovese in Sardegna sopravvisse sino al 1448, grazie a Nicolò Doria, che per ultimo tenne Castelgenovese.

Branca Doria - Archivio di Stato di Genova - Sito web ufficiale (beniculturali.it)

Branca Doria - Wikipedia Michele Zanche - Wikipedia Sardegna in "Enciclopedia Dantesca" (treccani.