La marineria cartaginese - parte 1

La marineria cartaginese - parte 1

Abbiamo spesso parlato di mare, delle navi, della navigazione, delle rotte e delle merci che venivano trasportate nella nostra Isola già a partire dalla preistoria in compagnia di Lucio Deriu, sempre con lui ora invece andremo a vedere una delle più grandi marinerie antiche che abbiano solcato il Mediterraneo occidentale, ovvero quella cartaginese, che tanto ha operato in Sardegna dopo il VI sec. a.C. Impariamo a scoprirla…

 

Affrontando il discorso sulla marineria punica si è costretti a scontrarsi con la carenza di documentazione che purtroppo limita l’approfondimento della ricerca; rimane il fatto certo che gli scrittori antichi non avevano dubbi nel qualificare Fenici e Cartaginesi come i popoli più esperti in fatto di navigazione per il fatto che passavano la loro vita sul mare praticando il commercio e usando la loro flotta da guerra per le conquiste, scontrandosi spesso con le altre “superpotenze” sul mare quali erano Romani e Greci [1].

Conosciamo proprio attraverso gli storici romani e greci la maggior parte delle informazioni, soprattutto per quanto attiene le guerre puniche; è facilmente immaginabile però come questi potessero non essere spesso obiettivi o addirittura mitologici per come venivano raccontati gli avvenimenti.

Le varie colonie puniche, dalle coste africane alla penisola iberica e nelle grandi isole come la Sardegna avevano i propri cantieri navali in gradi di allestire una flotta ed organizzare gli equipaggi, senza dipendere da Cartagine.

Gli insediamenti costieri punici si caratterizzarono per il loro stretto rapporto con la navigazione e la scelta degli approdi, in una strategia legata agli aspetti commerciali ed economici svolta a localizzare il miglior luogo di sbarco per un miglior sfruttamento del territorio; tale strategia di insediamento permetteva anche una efficace difesa del luogo, contro attacchi provenienti sia dal mare che da terra.

E’ possibile individuare, in base alle emergenze archeologiche la tipologia degli insediamenti costieri, che spesso doveva prevedere la disponibilità di una o più zone di mare protetto e che possiamo brevemente riassumere in insediamenti su promontori, più o meno prominenti sul mare, come la nostra Cornus costruita sul colle di Corchinas che sovrasta Torre del Pozzo[2]; insediamenti su isolette prospicenti la costa, in mare aperto o in zone parzialmente protette da un golfo, come ad esempio è Tharros, con il porto “costruito” all’interno della grande laguna di Mistras, poi chiusasi naturalmente dagli attuali cordoni dunari fino a renderlo impraticabile; insediamenti alla foce dei fiumi o corsi d’acqua minori, spesso protetti dagli scogli antistanti il litorale, insediamenti fluviali.[3]

In alcuni casi ci troviamo di fronte ad abitati apparentemente privi di zone riparate per l’approdo, che presentano spiagge relativamente ridossate o protette da bassi fondali e da scogli, dove è verosimile che le navi stazionassero in rada limitatamente al tempo necessario per le operazioni di imbarco e di sbarco, per passare la notte e per fare rifornimenti, come la sosta indispensabile per l’acquata ovvero il rifornimento dell’acqua dolce.

Queste imbarcazioni venivano ancorate presso la riva sfruttando al meglio le caratteristiche del litorale e le condizioni meteomarine; l’equipaggio scendeva a terra per mezzo di una passerella o di una scialuppa; diversamente le navi più lunghe potevano essere tirate in secco sulla spiaggia, come ampiamente documentato nei poemi omerici.

Dopo una prima fase di assestamento del centro doveva iniziare la costruzione dell’impianto portuale, utilizzando al meglio le disponibilità offerte dalla natura della costa, come nel caso degli scogli e delle isolette a breve distanza che potevano essere raccordate con strutture murarie al fine di realizzare veri frangiflutti e moli. Le strutture superstiti sono in gran parte di origine romana, ma spesso analizzandole meglio esse possono ricalcare le precedenti situazioni di origine punica.

Come abbiamo visto in un precedente contributo sui santuari frequentati dai marinai la vita dei naviganti è sempre stata profondamente segnata da una profonda religiosità.

L’improvviso cambiamento delle condizioni meteorologiche, le lunghe bonacce e le violente tempeste, gli incidenti alle strutture della nave, i pericolosissimi spostamenti di carico nelle stive, il freddo intenso e il caldo torrido, le lunghe assenze lontani da casa, le difficoltà per un approdo imprevisto, le secche e gli scogli affioranti, la perdita dell’orientamento o dei riferimenti di rotta, l’ostilità di popolazioni sconosciute, i pirati, le antiche paure che vedevano i mari popolati di mostri terribili; questi sono solo alcuni pericoli del mare, delle difficoltà e delle paure che venivano quotidianamente affrontate dagli uomini delle antiche marinerie.

Una vita costantemente condizionata da tante variabili e da tante incertezze aveva bisogno di riferimenti fermi, onnipresenti e superiori a cui aggrapparsi nelle necessità e nel momento estremo del pericolo. Per questo motivo le navi avevano sempre portato i nomi e i simboli della divinità, secondo una pratica ben nota in tutte le marinerie del mondo allora conosciuto, mentre i marinai hanno sempre trovato nel santuario, nella casa della divinità adorata, un riferimento fisico e spirituale indispensabile, non solo per chiedere aiuto.

A Cartagine nel periodo della terza guerra punica (149 – 146 a.C.), il tempio di Apollo era probabilmente situato al limite della grande piazza centrale presso il porto commerciale.[4]

Il tempio diventava anche il luogo a cui i naviganti affidavano la memoria delle loro imprese marittime e certi santuari avevano quindi un rapporto diretto con la navigazione; a causa della grande e continua frequentazione da parte di marinai di origini e provenienze diverse, essi diventarono dei veri centri di raccolta di informazioni nautiche e geografiche.

I traffici mercantili rappresentavano un aspetto fondamentale nella civiltà punica, direttamente connessi con le rotte seguite, dal regime delle correnti marine e dei venti.

Diversi indizi storici ed archeologici documentano lo stretto legame commerciale tra Cartagine e le città etrusche che si sviluppò in epoca arcaica e ben note sono le importazioni di ceramiche in bucchero[5] nella città africana tra il VII ed il VI secolo a.C., a tal proposito è importante ricordare gli accordi tra queste due popoli che nel 540 – 535 a.C. li vediamo uniti nella famosa battaglia del Mare Sardonio che vide impegnate congiuntamente la flotta cartaginese e quella etrusca, probabilmente della città di Caere[6], per stroncare l’attività di disturbo e pirateria che greci di Focea conducevano nel mare Tirreno dalla loro base di Alalia in Corsica (ora Aleria), fino a costringerli ad abbandonare l’isola.

 

 



[1] S. Medas, La marineria cartaginese, Sassari. 2000.

[2] Chi scrive ha partecipato a due campagne di scavo con l’Università di Sassari e l’Università di Berlino in un progetto per l’individuazione delle strutture insediative di epoca punica.

[3] A tale proposito purtroppo ancora non ci provengono dati archeologici che possano confermare un utilizzo del fiume Temo e l’attuale cittadina di Bosa.

[4] S. Medas, La marineria cartaginese, Sassari. 2000.

[5] Nel bucchero è nero sia l’impasto che la superficie, che si presenta lucida e compatta. Il colore non è ottenuto con la pittura ma grazie ad un particolare procedimento di cottura in assenza di ossigeno.

[6] R. Zucca, P. Bernardini, P.G. Spanu, Make La battaglia del Mare Sardonio, Oristano. 2000.