Quando la Sartiglia non arrise agli Oristanesi

Quando la Sartiglia non arrise agli Oristanesi.

Abbiamo visto fino ad ora racconti di mare e di genti di mare che hanno portato nella nostra Isola nuove sconosciute tecnologie poi affinate dai nostri abili artigiani e quanta ricchezza locale gli stessi Sardi abbiano esportato a partire dai lontani millenni neolitici. Un mare Mediterraneo dove si affacciano tre Continenti quali Europa, Asia ed Africa che nel corso dei secoli è diventato sempre più “piccolo ed affollato”, solcato purtroppo anche da chi sarà portatore di saccheggio e distruzione a danno dei centri costieri o immediatamente vicini.
Oggi si narra di una triste vicenda locale anche per gli strascichi storici che ha lasciato, e come tale degna di essere raccontata.

 

La sabbia della Sartiglia, anche se non palesemente presente nella Ruga Mercatorum della capitale del Giudicato d’Arborea o, se preferite, nella attuale Via Vittorio Emanuele, (per gli estimatori della plurisecolare manifestazione equestre più amata e sentita dell’Isola rimane Sa Sea de Santa Maria in onore della vicina cattedrale intitolata alla Vergine Assunta) c’è sempre...tutto l’anno!!!; le due giostre a cura dei Gremi di San Giovanni la domenica e di San Giuseppe il martedì continueranno a regalare decine di stelle e, nella tradizione agraria, si tradurranno in prosperi raccolti, grazie alla metamorfosi dell’uomo divenuto dio e re per un giorno della nostra antica città e alla sua armata di cavalieri.
Le cronache antiche non riportano se il 22 di febbraio del 1637 la Sortilla si sia mai svolta e, in caso positivo, dalle cronache non sapremo mai quanti anelli sarebbero stati colti per sognare una florida mietitura ma, di una cosa gli Oristanese furono testimoni: uno sbarco nemico in piena regola!!!
Il Capitano Camos (ricordate il Comandante che fece il periplo dell’Isola per localizzare i siti dove inserire le torri costiere?) aveva messo in guardia gli allora governati spagnoli presenti nell’isola che il sistema di torri costiere d’avvistamento poteva ritenersi valido solo se la città di Oristano fosse stata munita di una valida fortificazione, al pari di Caller (Cagliari), l’Alguer (Alghero) e Castel Aragonese (Castelsardo).
Esito diverso si sarebbe avuto se il progetto di fortificazione redatto dell’architetto Rocco Capellino del 1577 avesse avuto seguito; di tale ambizioso progetto rimane traccia nel Codice Manoscritto cartaceo custodito presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.
Ma torniamo a quel triste giorno di carnevale del secondo venticinquennio del 1600; immaginiamo per certo che in città il divertimento impazzava già da diversi giorni; Oristano e i villaggi prossimi si sentivano al sicuro all’ombra della Gran Torre d’Oristano, la più grande e poderosa dell’Isola che troneggia sul litorale con una guarnigione di un alcaide, un artigliere e quattro soldati e capace di controllare tutto il golfo per difendere la foce del Tirso allora navigabile fino alle porte del centro abitato, tanto poter assicurare un sicuro riparo alle navi e garantire proficui scambi commerciali con  la città che fu di Eleonora e alle altre torri di San Cristoforo e San Filippo che custodivano gli accessi nella già disastrata cinta muraria medievale.
Questa sicurezza, garantita da tanta monumentalità venne sopravvalutata dallo stesso alcaide che proprio quel 22 febbraio decise di lasciare di guardia due soli uomini (“…tanto non è successo mai niente”, si sarà detto) per potersi recare, col resto della piccola guarnigione a festeggiare con zippole e vernaccia il carnevale popolare.
I due uomini di guardia poco avrebbero potuto comunque fare quando nelle tranquille acque del golfo si materializzarono ben 45 galere armate a vela provenzale e olandese da 68mila tonnellate di stazza ciascuna, eccetto tre che erano armate a vela latina, con un esercito di oltre 4000 soldati ed un alto numero di cavalli al seguito.
Questi dati esposti con precisione ci provengono dal padre Giorgio Aleo nella sua “Historia Cronologica” insieme ad una vivace descrizione dell’avvenimento.

Comandava l’armata Enrico di Lorena conte d’Hancourt accompagnato dall’Arcivescovo di Bordeaux Antonio Sourdis d’Escombleau che fungeva da consigliere militare e da gran cappellano; ma cosa ci faceva siffatta flotta nel Mare di Sardegna nei freddi giorni di febbraio?
Siamo nel pieno della fase francese della Guerra dei Trenta anni (1635 – 1648), la quale, macchiandosi di tante nefandezze, incominciò come guerra per la libertà di religione e terminò come conflitto che determinò in Europa un nuovo equilibrio politico; una delle teorie di tale sbarco fu quella di fare di Oristano una testa di ponte per una probabile invasione e conquista dell’intera isola o, come attestano altri illustri storici, si volevano saggiare le effettive forze dei Sardi e scoprire quali località fossero ricche di approvvigionamenti per il rifornimento delle truppe che già da circa un anno si trovavano nei mari della Sardegna provenienti dal vicino Atlantico dopo aver recato aiuto al duca di Parma alleato del re di Francia,  e che la fame li spingeva ad atti di vera pirateria, ben lontani dalle città meglio protette proprio di Cagliari e Alghero.

La valenza dei ridossi occidentali del golfo garantiva fondali capaci di accogliere qualsiasi flotta armata, al riparo dalle violente libecciate, con un entroterra ricco di acqua dolce e legname.

Ma torniamo alla nostra cruenta invasione.

Nella memoria degli storici che narrarono lo sbarco tale evento è ricordato come l’invasione de i sordaus grogus ovvero dei Francesi dai gialli calzoni, dal colore dominante della loro divisa, che dal 22 al 26 febbraio imperversarono per villaggi e campagne abbandonandosi a vere azioni di puro saccheggio e non fu possibile impedirne l’ingresso tanto rapidamente avvenne e ci accorse di essi quando ormai le navi entrarono in porto.
Nella sola Oristano il 25 di febbraio vennero depredate case e chiese; la cattedrale subì l’onta della spoliazione di quadri, statue, paramenti sacri, preziosi e gioielli valutati oltre 20mila scudi e solo la pietà dell’Arcivescovo di Bordeaux riuscì a convincere il conte di Lorena a non dar fuoco all’intera città.

Il vicino borgo di Santa Giusta e altre località limitrofe ospitarono i fuggiaschi oristanesi sfuggiti alla morte compresi l’Arcivescovo oristanese Gavino Magliano e tutto il clero, in attesa dell’arrivo via terra dei salvatori; il povero prelato  penso pure di mandare un accorato messaggio in latino al suo confratello francese sperando in  un suo ripensamento; con abili stratagemmi, riuscirono a far credere agli invasori di avere una cavalleria superiore (le cronache riportate dallo storico Giuseppe Manno  narrano di una truppa formata da 80 cavalieri che girarono per due interi giorni intorno al santuario di Santa Giusta facendo un gran polverone con delle frasche che venivano trascinate, facendo credere quindi ai francesi l’arrivo di migliaia di soldati).
Per l’occasione pure tradizionali nemici come don Diego de Aragall comandante delle milizie di Cagliari e don Girolamo Comprat comandante delle milizie che provenivano dal Montiferru rinunciarono alle proprie rivalità per unirsi contro lo straniero che, anche a causa di tali rivalità interne aveva avuto facile accesso nel golfo di Oristano.
I Francesi, non dopo una strenua difesa, vennero ricacciati sulle loro navi ma dovettero lasciare sul terreno insieme ai morti e ai prigionieri due pezzi di artiglieria, undici battelli e i loro otto preziosi stendardi in panno rosso con applicazioni decorative di tela policroma ricamata e riportanti le effigi delle nere aquile, simbolo della contea di Lorena e opera di arazzieri francesi del XVII secolo. Ancora oggi è possibile ammirane quattro, dopo laboriosi lavori di restauro, presso la cattedrale della città arborense mentre gli altri quattro fanno degna presenza nella cattedrale di Saragozza, quale ringraziamento per l’aiuto offerto dagli spagnoli nella cacciata degli Ugonotti.