EMPORIKOS KOLPOS – IL GOLFO DEGLI EMPORI

EMPORIKOS KOLPOS – IL GOLFO DEGLI EMPORI

Restiamo nel nostro bel territorio Oristanese, teatro di tanti avvenimenti che hanno segnato profondamente le varie fasi storiche.

 

Nel 2005 le sale dell’Antiquarium Arborense ospitarono una interessante esposizione dal titolo in lingua greca di Emporikos Kolpos, ovvero Il Golfo degli Empori.
Gli ambiti cronologici sono sicuramente tra i più vasti tra quelli finora percorsi dal Comitato Scientifico guidato dal vulcanico archeologo e storico Raimondo Zucca che puntualmente cura la scelta degli argomenti da offrire e approfondire, in modo da dare al visitatore, sia esso esperto o neofita, un quadro quanto più esatto possibile di quella fetta temporale analizzata; un salto temporale che i ritrovamenti archeologici fanno iniziare in quel lontanissimo XV secolo a C. che vede navigatori egei e vicino-orientali presenti in gran parte del bacino del Mediterraneo occidentale in veste di prospectors, ovvero di esploratori “a caccia” delle tante risorse mercantili che, in un economia caratterizzata dagli scambi, trovava nelle risorse naturali della nostra isola favorevoli sbocchi.
Si diceva quindi di un titolo tutto greco forse arcano ai più ma estremamente significativo una volta tradotto: in lingua greca per Emporia si intendevano esclusivamente i traffici marittimi in cui l’Emporòs è spesso lo stesso armatore-comandante della nave che percorre, sia con rotte costiere che d’altura, quelle vie d’acqua oramai ben conosciute.
Il Kolpós è il golfo, in questo caso è quello vasto di Oristano, il cui entroterra ha offerto per millenni appetibili risorse commerciali.
Questo specchio di mare, chiuso alle imboccature dal Capo San Marco a Nord e dal Capo della Frasca a Sud è caratterizzato da un regolare fondale sabbioso, che si estende quasi come un grande lago o, nel modo in cui ancora è descritto da qualche fantasioso e poco informato narratore, come quanto resta della bocca di un vulcano esploso dopo l’ingressione marina.
In effetti questo tratto di mare rappresentava per gli antichi marinai “l’optimum”: ridossi sicuri, facili avvicinamenti alla costa, disponibilità di acqua dolce, ricco entroterra e uno straordinario popolo indigeno capace di apprezzare l'amicizia e lo scambio non solo di prodotti ma anche di esperienze e tecnologie.
Le divinità dei Pelasgi e della primitiva Grecia guideranno nelle sabbiose spiagge del Sinis i Micenei; troviamo in ambito tharrense piccoli ma significativi frammenti della loro preziosa ceramica databile al Miceneo IIIA (fine XV – inizi XIV secolo a C.); le fogge sono quelle dei cosiddetti alàbastra: un contenitore ceramico dalla caratteristica forma chiusa che, a partire dai primi ritrovamenti nel Nuraghe Antigori di Sarroch, Nora, Tratalias, Monastir, Villa San Pietro, Borore e Orosei hanno contribuito a riscrivere una delle pagine più antiche dei rapporti con gli ambiti culturali del Vicino Oriente Antico nel Mediterraneo Orientale.
I Fenici con le loro vele tinte con la rossa porpora, dopo aver probabilmente ereditato le conoscenze dei Micenei, arriveranno molti secoli più tardi, dopo quei “secoli bui” lasciati dal passaggio dei cosiddetti Popoli del mare, trovando ad attenderli ancora i costruttori dei nuraghi che abitavano l'insediamento nell'altura di Murru Mannu; gli scambi saranno immediati e, verosimilmente, proficui per entrambi.
Le tombe a incinerazione delle due necropoli, distanti tra loro oltre 3 chilometri, ci ricordano ancora il gran numero di semiti presenti nella colonia, restituendo già ai primi scavatori ottocenteschi le caratteristiche ceramiche rituali insieme a pregevoli corredi d'accompagno.
L'emporio di Tharros (ancora si discute sull'esatto etimo di tale toponimo)ebbe la caratteristica di vero e proprio porto di ridistribuzione (port of call in denominazione archeologica); Si ipotizza pertanto la presenza di una organizzazione centrale che si faceva carico di una capillare distribuzione delle merci in arrivo soprattutto attraverso la fitta rete di canali interni che copiosi e navigabili mettevano in comunicazione le lagune che ancora conosciamo e che occupano una grande porzione dell'estesa penisola del Sinis verso Settentrione.
Grandioso sarà il sistema urbano in età cartaginese a partire dal termine del VI secolo a C.; fino al III secolo a C. nelle necropoli di Tharros si accumuleranno enormi ricchezze tratte in gran parte dai proficui traffici dovuti all'intenso sfruttamento delle fertili aree dell'entroterra, delle vaste saline e dalle estrazioni minerarie della vicina area di Cornus alle falde del massiccio del Montiferru, che costituiva il caposaldo per il controllo territoriale di quella ricca area montuosa.
L'avvento dei Romani dopo gli esiti della Prima Guerra Punica trova una città fortemente punicizzata, soprattutto dal punto di vista culturale; persisteranno a lungo i culti delle divinità orientali come Baal Hammon o Tanit; solo più avanti la città vedrà al suo interno sorgere gli elementi dei culti imperiali. A noi rimangono i segni del grande Capitolium dedicato alla triade Giove, Giunone e Minerva; le due colonne in cemento erette negli anni '50 sulla base di una preesistenza, sorreggono un autentico capitello in stile corinzio; esse sono oramai diventate l'emblema di riconoscimento della antica città che, molti secoli dopo, la vedrà prima capitale di quello che sarà il Giudicato di Arborea nonché sede dell'omonima diocesi del primitivo cristianesimo nell'Isola.
A sud del Golfo, quasi perduta in un dedalo di lagune e stagni come quello di Marceddì, San Giovanni e Santa Maria de Nabui troviamo  un emporio già attestato a partire almeno dal Bronzo Finale (XII – fine X secolo a C.): Neapolis; anche questo un toponimo greco che significa Città Nuova ma, a dispetto del nome, non avrebbe mai visto tali colonizzatori sbarcare nelle sue rive; la ricerca archeologica ha restituito un frammento di quello che è stato definito come un sarcofago fittile (ceramico n.d.a.) antropoide di origine filistea. La Neapolis oggetto dei primi scavi oramai vecchi di oltre quaranta anni da parte di Raimondo Zucca, continua a restituire una articolata stratigrafia che vede con la prima età del Ferro la fondazione dell’emporio dei Fenici di Tiro a partire dalla metà dell’VIII secolo a C. a quella successiva di età punica.
In effetti si deve proprio a loro il toponimo di tale insediamento in quanto sia la storia che la geografia registra varie Neapolis nell’Africa Punica (Nabeul in Tunisia, la Napoli nella attuale Campania e, verosimilmente la Nabui-Neapolis di Sardegna); questo emporio si rivelerà particolare per quantità e qualità di ceramiche greche, in particolare quelle a vernice nera di provenienza attica, la regione di Atene.
Caratteristici sono i ritrovamenti entro una stipe votiva di una gran numero di ex-voto figurati offerti ad una divinità salutifera; tali singolari artefatti si presentano sia sotto forma di piccole statuine antropomorfe in cui, la sfera delle malattie e dei disturbi fisici accusati dal popolo, è variamente presentata con l’apposizione della mano sulla parte del corpo dolente e per la cui guarigione ci si rivolge alla divinità; ecco quindi parti anatomiche come teste, braccia, mani, piedi ed altri attributi anatomici sessuali per una richiesta di fertilità.

Le tipologie di tali materiali presentano differenze tecniche costruttive; da quelle più semplici in argilla appena cotta a quelle eseguite al tornio dagli artigiani e dalla caratteristica forma a campana. Tutte in ogni caso mantengono immutata l’ideologia e la tematica già descritta.
Ancora ai nostri giorni i Santuari sardi più venerati sono colmi di tali ex-voto o votum solvit, (spesso l’avvenuta guarigione è ricordata appunto con l’acronimo P.G.R. Per Grazia Ricevuta).

L’insediamento prosegue la sua vita anche con la conquista dell’isola da parte dei Romani nel 238 a C. al termine della Prima Guerra Punica. Gli scavi della città romana sembrano riproporre la scelta insediativa punica, occupando una parte dell’entroterra; le modificazioni geomorfologiche di questa area, attualmente ricca di lagune, hanno irrimediabilmente occultato il porto ricordato da fonti antiche, dalle citazioni nei portolani e dalle carte nautiche del basso Medioevo e da quelle altomedievali.

La città romana restituisce uno stabilimento termale d’età imperiale riutilizzato, nelle residue strutture, fino al XVIII secolo come chiesa intitolata alla Vergine Santa Maria de Nabui.

Altrettanto interessante appare la genesi dell'emporio di Othoca, all'interno della laguna della attuale Santa Giusta, al centro esatto della falce sabbiosa che caratterizza la costa del golfo, al riparo di un sistema dunario tuttora riscontrabile.
L'archeologia ci rende determinabile la sua fondazione attraverso i ritrovamenti nell'altura ora occupata dalla attuale basilica; i reperti furono infatti datati come pertinenti alla seconda metà dell'VIII secolo a C.

Tale insediamento a sua volta si sovrapponeva ad un centro indigeno attivo tra il Bronzo recente e la prima età del Ferro. Un nuraghe con un vasto villaggio circostante troneggiava sul poggio della esistente chiesa romanica lasciandone viva traccia proprio all'interno della grande cripta medievale.

Secondo le indicazioni di Raimondo Zucca, notevoli sono state le variazioni geomorfologiche, probabilmente causate dal differente scorrere del fiume Tirso che, riversando le acque cariche di materiale alluvionale del suo tratto terminale proprio nelle vicinanze, potrebbe aver decretato la fine del positivo utilizzo della grande laguna, riparata dai venti e dai marosi, ma soprattutto del ricco entroterra riconducibile alla porzione meridionale dell'attuale Campidano, confinante a Est con il massiccio dell'Arci-Grighine, luogo di estrazione per millenni della pregiata ossidiana.
I traffici commerciali della antica Othoca trovano fondamento nei numerosi ritrovamenti di materiale anforario di produzione sia fenicia che punica proprio nelle poco profonde acque all'interno della laguna santagiustese.

In età romana vediamo Othoca ridotta al rango di civitas stipendiaria, perdendo tutte quelle caratteristiche emporiche che l'avevano caratterizzata nei secoli precedenti; la troviamo menzionata nel grande Itinerarium Antonini come nodo stradale in cui si incrociano la via a Tibula Sulcis e la strada centrale che collegava Turris Libissonis (Porto Torres) a Karales (Cagliari).

Abbiamo virtualmente navigato all'interno del grande Golfo, attuale  sede del porto industriale della moderna città di Oristano; oggi come allora i moderni navigatori che, con differenti imbarcazioni varcano i due promontori che delimitano lo specchio d'acqua, percepiscono immediatamente le favorevoli condizioni che si possono godere, magari dopo una turbolenta navigazione nel Mare di Sardegna,  reso a volte tumultuoso dal forte vento di Maestrale o dagli insidiosi treni d'onde provenienti da Sud-Ovest.
Chi navigava migliaia di anni orsono l'aveva capito e, senza rendersene conto, aveva iniziato a valorizzare e rispettare questo territorio.