Vaso con versatoio di produzione oristanese del sec. XX, cm. 22 h.

Nurallao e i suoi manufatti

Per tutto il secolo XIX la città di Oristano e Nurallao, chiamata anche “Sa Idda ‘e is frascus”, assieme agli altri paesi meridionali di Assemini e Pabillonis, rappresentarono i maggiori centri di produzione di vasellame, stoviglie e contenitori d’acqua, come quelli che presento in questa breve esposizione.

Osserva Vittorio Angius  nelle pagine che dedica alla Città Regia di Oristano e al villaggio di Nurallao, contenute entrambi nel monumentale Dizionario, opera del Casalis, che “…i vasai (congiolarjos) d’Oristano in paragone degli altri della stessa arte in Sardegna sono di molto superiori, e fanno talvolta per dimostrazione di loro perizia in tali opere…..Il numero dei vasai è di circa 30, le officine rispettive sono tutte in fila rimpetto alla chiesa di S. Sebastiano (odierna via Figoli o Su Brugu de is Congioargius), le fornaci a pochi passi con grave incomodo del pubblico per il fumo, e nell’estate per l’aumento del calore…”. Per Nurallao attesta che “…Nella figulina non lavorano meno di 60 individui e fanno varie opere sebbene grossolane. Siffatte manifatture sono poi mandate nelle fiere su carri o ne’ canestri sul basto de’ cavalli, e si portano da uno in altro paese per fornirne alle famiglie che ne han d’uopo…”. È noto che Oristano esportava i suoi prodotti, specie quelli per la conservazione dell’acqua, come il nostro vaso, nella parte centro-settentrionale della Sardegna, mentre Nurallao esportava i suoi manufatti nella parte meridionale dell’Isola.
Questo vaso con versatoio (1900 ca.) di produzione oristanese del sec. XX, cm. 22 h, presenta, ad un esame comparativo, alcune caratteristiche simili per forma e materiali utilizzati alla “brundia” prodotta nel sec.XIX e inizi del ‘900 nei paesi di Nurallao e Nurri. Il manufatto è conservato tra i cimeli della Collezione Cle- mente del Museo Sanna di Sassari. La tecnica di lavorazione ci è nota dagli studi effettuati da M. B. Annis e L. Jacobs, 1986: si modellava il vaso al tornio e, utilizzando un filo refe, si staccava il manufatto dal piatto del tornio. Una volta rassodata l’argilla (terra cungiai), estratta da cave in- dividuate nell’agro di Oristano, tra l’antica chiesa di San Nicola di Gurgo e l’attuale campo santo cittadino, il vaso veniva assottigliato alla base e si procedeva alla lavorazione manuale delle appendici (anse, beccucci e motivi ornamentali).
Ad essicazione avvenuta, al vaso si applicava “su stangiu”, ovvero l’ingobbio, una leggera patina bianca ottenuta sciogliendo nell’acqua l’argilla litomarga di Nurallao, precedentemente passata al setaccio al fine di raffinare il prodotto e liberarlo da impurità. L’argilla di Nurallao era perfettamente compatibile con quella oristanese. L’utilizzo dell’argilla di Nurallao è confermato dalla tradizione orale,che tramanda notizie su un vivace commercio del materiale, che veniva trasportato su carri a buoi da Nurallao ad Oristano. Il più delle volte i figoli oristanesi remuneravano il materiale ricevuto con manufatti locali. Dopo ulteriore breve essicazione al vaso veniva applicata la vetrina (ammesturamentu) i cui ingredienti finemente macinati in un mortaio erano costituiti dal verde della ramina (iscattu de arramini), fornita in passato dai ramai di Isili, il bruno con residui di ferro (iscattu de ferru) forniti dai fabbri locali. Stesa la vetrina, si lasciava asciugare al sole e poi si procedeva alla cottura. Ai colori del rame e del ferro nella vetrina erano aggiunte la galena (cabanza) e la silice (perd ‘e fogu) in dosi di tre parti a una.

“Sa brundia di Nurallao e Nurri, vaso con versatoio, invetriato,(1850 ca.), h. cm 34, presenta le stesse caratteristiche del manufatto oristanese ed ha le stesse tecniche di lavorazione presenti in Sardegna dall’età antica e testimoniata dal Della Marmora nel 1839. Egli scrisse che la ceramica di Nurallao si era soliti verniciarla con “l’argilla litoarga” di Laconi, Nurri e Nurallao: in effetti il vaso si presenta elaborato con l’argilla rossa ricoperta di una leggera patina bianca, che costituisce lo strato d’ingobbio steso sotto la vetrina piombifera colorata parzialmente di verde ottenuto dal rame. L’argilla litomarga aveva quindi la funzione di schiarire la superficie e di proteggerla, per evidenti motivi estetici ed igienici. Anche a Nurallao la galena veniva usata con molta parsimonia.