ORISTANO E I SUOI CONFINI STORICI

ORISTANO E I SUOI CONFINI STORICI

Quando si dà inizio ad una ricerca spesso si sa da dove si inizia ma non dove si può andare a finire.
A volte la si intraprende per dare seguito ad una traccia nata in un precedente lavoro, per completarne uno preesistente (magari iniziato da un altro ricercatore) alla luce di nuovi fatti, altre volte perché sorge l’esigenza di voler conoscere meglio qualcosa, ed è il caso del questo contributo che vi accingete a leggere.

 

Questo scritto ha una genesi abbastanza singolare, parla del presente, ma affonda solide radici nel passato e nasce dall’esigenza di conoscere meglio i confini del nostro territorio comunale, spazio all’interno del quale (ai sensi dell’Ordinanza n. 20 del 2 maggio del Presidente della Regione e successive note esplicative) era stabilito poter svolgere “attività motoria” a piedi o in bicicletta.

Molti nostri concittadini, amanti delle lunghe escursioni, senza conoscere esattamente i confini del territorio in questione, si sono sentiti limitati da questi provvedimenti, ignorando tuttavia che detti confini sono fissati, nella loro parte orientale, alle pendici del Monte Arci, sul suo versante nord occidentale conosciuto col toponimo di Cost’e Pisu, che lambisce i territori dei Comuni di Villaurbana e Palmas Arborea.

Se ci mettiamo in auto e percorriamo la strada che costeggia l’aeroporto di Fenosu, attraversando il bivio per San Quirico/Palmas Arborea e proseguendo sempre in direzione est (S.P. 57) fino all’incrocio con la cosiddetta strada "pedemontana" (S.P. 68) giungiamo al piccolo centro agricolo di Tiria.
I più non sanno che, superato l’incrocio e lasciando alla propria destra la borgata, proseguendo in direzione del Monte Arci procederebbero su una strada che costituisce il limite comunale tra Oristano (sul lato sinistro) e Palmas Arborea (sul lato destro); Tiria ricade interamente nel territorio di quest’ultimo Comune.

Il territorio comunale di Oristano prosegue fino a sfiorare il Monte confinando, come scritto sopra, con i territori di Palmas Arborea e di Villaurbana, come visibile nella fig. 1.

Nella fig. 2 è invece possibile seguire la linea di confine che ha, come vertice settentrionale il Nuraghe Bau Mendula e per vertice meridionale il Nuraghe Paiulu.

Ed ecco che dall’esigenza nasce la ricerca, alimentata dalla curiosità: perché il territorio comunale di Oristano si è spinto tanto a oriente da generare la curiosa comproprietà di un nuraghe pluriturrito quale il Bau Mendula (guado del mandorlo), indagato archeologicamente a partire dal 1990 dall’allora Soprintendente Archeologo Vincenzo Santoni (nelle sue ricerche il Santoni fa ricadere la cosiddetta “Torre B” del nuraghe nel territorio del Comune di Oristano)? Quale storia ha stabilito questi confini?

Per il nostro viaggio nel tempo ci serviremo di due accreditate fonti storiche quali sono Il Condaxi Cabrevadu[1] ed il Brogliaccio di San Martino[2]

A tale ultima opera faremo direttamente fede per tornare indietro nel tempo, un manoscritto di cui è innegabile l’importanza in ambito paleografico, topografico, geografico storico ed economico, perché ci informa della vita del monastero di San Martino dopo la scomparsa dei Benedettini.

Il convento di San Martino di Oristano era quindi un monastero di Benedettini e ciò risulterebbe dall’atto pubblico del 18 gennaio del 1228, con cui Pietro II d’Arborea, presente l’arcivescovo Torgotorio, donava alla chiesa di San Martino alcuni “saltos e montes”.

Tuttavia sull'autenticità dell'atto di donazione sussistono dei dubbi, così come sussistono dei dubbi sull'autenticità della donazione del 1326 attribuita a Mariano IV[3].

Le prime relazioni tra l’Abbazia di Montecassino e la Sardegna risalgono agli albori della seconda metà del secolo XI, quando la nostra isola, con i Giudicati ormai consolidati, godeva la sua prima era di autonomia.

Per invito del Re Barisone di Torres, che vedeva in tale ordine un grande aiuto per la gestione e la evangelizzazione del proprio regno, durante la primavera del 1063, quando era più facile la traversata, dodici Benedettini si imbarcarono a Gaeta per la Sardegna con lo scopo di costruire un nuovo monastero; ma, durante la traversata la nave fu assalita dai pirati, depredata e data alle fiamme. Nel 1066 seguì una seconda spedizione, questa volta dietro invito di Torchitorio di Cagliari; questa spedizione approdò felicemente nei porti isolani e si insediò sulla sommità di Montesanto, la cima più alta del Meilogu.

L’Ordine Benedettino giunge nell’Arborea nel 1182, quando Barisone d’Arborea chiese all’Abbazia di Montecassino dodici monaci per fondare un monastero fuori le mura di Oristano presso la chiesa di San Nicola di Gurgo[4] (ubicata nella zona dell’attuale quartiere che ne porta il nome); Barisone chiese che almeno quattro di essi fossero letterati per poterli far ordinare vescovi ed arcivescovi e poter affidare loro gli affari importanti del regno; al contempo pensò ai bisogni della sua corte e a risollevare le condizioni culturali del clero, esigenza che avvertì il Concilio di Santa Giusta[5] (tenutosi nel 1226) per dare un nuovo impulso all’insegnamento della teologia. La nuova chiesa fu dotata di terre e di servi della gleba per la coltivazione, oltre il privilegio di libertà di pesca negli stagni di Santa Giusta, di Pontis e di Mistras .

Successivamente, non è dato sapere quando, i Benedettini si insediarono presso l’Hospitali Sancti Antoni, fondato dallo stesso Barisone nel 1175 e successivamente presso la chiesa e il monastero di San Martino. Sulla base del già citato documento del gennaio 1228, Pietro II d’Arborea donava alla comunità monastica insediata presso la chiesa di chiesa di San Martino di Oristano i quattro monti denominati Gay, Florissa, Clementi e Bidella e i quattro salti quali Canali, Planu Magiu, Doygasanta e Cardeas, localizzabili nel massiccio Monte Arci.

Nel 1505 il re, don Giovanni d’Aragona, eresse in abbadia quella chiesa; nel 1518 il convento di San Martino è di nuovo occupato da donne, monache di San Benedetto ma non di clausura.

L’amministrazione dell’Ospedale di San Martino fu affidata ai religiosi di San Giovanni di Dio, che per quasi due secoli avevano tenuto quella di Sant’Antonio Abate.

Dopo la soppressione del 1866[6] i Fatebenefratelli, nome popolare dei monaci di San Giovanni di Dio, lasciarono l’Ospedale di San Martino.

Il Brogliaccio ci narra con precisione altri eventi quali permute e vendite di terreni spesso difficoltosi a essere coltivati per mancanza di attrezzature oppure non più convenienti all’affitto o alla mezzadria. Numerose sono state le abitazioni acquisite in città o ancora vigne e fertili orti in cambio proprio di quei salti e montagne; molti affitti venivano pagati in natura come animali o altri beni di consumo.

Ancora sono presenti degli atti di rinuncia in cui le monache decidono di non percepire alcun fitto in cambio di migliorie fondiarie; si vedrà che in molti casi dopo l’operazione di miglioria il terreno è stato poi acquisito dall’affittuario.

I nuovi confini che nei secoli si sono creati con la suddivisione dei terreni con i Comuni che si sono formati hanno ulteriormente frazionato i terreni; non è una cosa rara vedere dei grandi appezzamenti “a cavallo” tra due Comuni con tutte le evidenti difficoltà.

Senza particolari approfondimenti, grazie alla consultazione della pagina #museoristano, si è potuta conoscere un'altra pillola sulla antica storia della nostra città e sugli effetti che essa ha avuto sull'attualità malgrado il tanto tempo trascorso.

Nelle carte a corredo del testo sarà più facile evincere spazialmente l’estensione del territorio comunale; a tale proposito si ringrazia Alessandro Pila e Paolo Marras per il loro prezioso lavoro di ricerca con interessanti suggerimenti, nonché della produzione sia delle vecchie mappe catastali che attraverso la moderna rielaborazione grafica dei territori interessati, quali imprescindibili strumenti una più esatta conoscenza.



[1] Il Condaxi Cabrevadu presenta l’interesse della continuità della vita del Monastero di San Martino di Oristano, di cui le Benedettine avevano l’amministrazione dei beni sotto la sorveglianza e la direzione dell’Arcivescovo di Oristano, per ordine del quale nel 1533 l’economo Giacomo Vinci formò appunto il registro di consistenza; il Condaghe o Cabreo.

Per ulteriori approfondimenti presso la nostra biblioteca comunale è disponibile il testo a cura di Maria Teresa Atzeni, la studiosa che per prima si è interessata a questi due importantissimi manoscritti.

2 Manoscritto del 1518 dove, con maggior precisione, vengono descritti i beni del convento di San Martino. Anche tale testo è disponibile presso la biblioteca comunale.

3 Manoscritto del 1518 dove, con maggior precisione, vengono descritti i beni del convento di San Martino. Anche tale testo è disponibile presso la biblioteca comunale.

[3] (https://www.filologiasarda.eu//pubblicazioni/pdf/Condaxi_Cabrevadu/01_Intro.pdf)

[4] Nell’area dell’attuale quartiere di San Nicola; a tale proposito si veda, sempre su #Museoristano, il Censimento Archeologico.

[5] Il Concilio di Santa Giusta del 1226.La cattedrale di Santa Giusta e i suoi Vescovi, vantano un ruolo importante, nella scena Politica Sarda del Medioevo.
Il ruolo del Vescovo si interpreta infatti, nella carica di Consigliere e Cancelliere del Giudice di Arborea, per tutto il periodo del Giudicato che intercorre tra la metà dell'XI e tutto il XV secolo.
Nel Novembre del 1226 , convergono nella Cattedrale di Santa Giusta, tutti gli Arcivescovi e i Vescovi della Sardegna e, alla presenza del Cardinale Gottifredo, "legato di papa Onorio III", si svolge un "Concilio della Chiesa Sarda" per l'applicazione delle "Riforme" decretate dal IV Concilio Lateranense. Ma perché un concilio in Sardegna, e perché a Santa Giusta?". C'era un altro argomento importante da discutere, come la definizione dei confini dei territori che spettavano alla diocesi di Santa Giusta.

[6]Con eversione dell'asse ecclesiastico si indicano gli effetti economici di due leggi del Regno d'Italia e segnatamente il regio decreto 3036 del 7 luglio 1866 di soppressione degli ordini e delle congregazioni religiose (in esecuzione della Legge del 28 giugno 1866, n° 2987), e la legge 3848 del 15 agosto 1867 che dispose la confisca dei beni degli enti religiosi ("Asse ecclesiastico"). Il termine "eversione", dalla radice latina evertĕre, significa abbattere, rovesciare, sopprimere. L'espressione, quindi, qualifica la confisca dei beni degli enti religiosi come un abbattimento del potere economico della chiesa cattolica. Essa venne utilizzata sia nei disegni preparatori che nella legge stessa del 1866, ma in leggi successive