LO SCAVO ARCHEOLOGICO DI SA OSA 5

LO SCAVO ARCHEOLOGICO DI SA OSA 5

Nel presente contributo, a cura dell’archeologo subacqueo della Soprintendenza Ignazio Sanna si potranno conoscere nello specifico i reperti organici del pozzo N. L’invito rivolto ai nostri lettori, sempre molto attenti e curiosi, è quello di tenere a mente le “figure professionali” che via via stiamo trovando presenti in quel piccolo fazzoletto di terra di Sa Osa, che diventerà a indagine ultimata, l’attuale rotonda.

 

Nel precedente contributo si è anticipato della straordinaria importanza che hanno avuto i rinvenimenti all’interno dei vari pozzi presenti nel quadrato W20; materiali fittili (ceramici) ma anche organici quali legni e semi.
La multidisciplinarietà all’interno di uno scavo archeologico sta diventando sempre più frequente ma soprattutto essenziale per una lettura puntuale non solo degli elementi di cultura materiale rinvenuti ma anche per quelli di carattere organico come ossa, pollini, semi e materiale ligneo.
Una analisi a 360 gradi compiuta non più sul campo ma all’interno di moderni laboratori che si avvalgono di strumenti altamente tecnologici ed effettuati da veri scienziati che solo pochi anni non avrebbero mai pensato di poter essere risolutivi, con le loro conclusioni, in una indagine archeologica.
Ecco che la formazione classica dell’archeologo si fonde con quella scientifica degli analisti per poter trovare risposte, facendo “parlare” appunto piccoli semi di frutti o schegge di legno. Stiamo parlando di quella moderna branca di studi che è la archeometria e quelle materie note col termine generale di Scienze della Terra.
Vista la grande importanza di questo contributo esso viene riportato pressochè integrale, mondato solo in piccolissime parti ove il discorso è estremamente tecnico; alcuni tratti però, sono stati lasciati al fine di far intendere la complessità e la completezza delle informazioni necessarie per arrivare all’ottenimento di risposte sempre più puntuali.
Ora seguiremo il resoconto dell’archeologo.

 

Premessa

Lo scavo del primo tratto del pozzo N, interrotto a ca. –4,35 m. di profondità, ha consentito di individuare e recuperare, assieme alle ceramiche ed ai metalli, una grande quantità di materiali organici: legni, carboni, sugheri, semi, resti faunistici terrestri e acquatici. Il fatto è indubbiamente rilevante dal punto di vista archeologico, ma assume caratteri eccezionali se rapportato alla cronologia del contesto, che è stata determinata con margini ben definiti dalle prime analisi dei vari reperti ceramici rinvenuti all’interno del pozzo.
In effetti, negli ultimi anni, a partire dalle indagini e gli scavi subacquei condotti nella Laguna di Santa Giusta (OR), che segna sicuramente una svolta nel sistema di ricerca archeologica in ambito subacqueo, per citare poi gli interventi all’interno del Porto di Cagliari, nella Laguna interna di Nora-Pula (CA), nella Laguna di Santa Gilla-Elmas (CA) e di recente nella Laguna di Mistras-Cabras (OR), i metodi messi a punto stanno restituendo, tra l’altro, una notevole ed insolita quantità di reperti organici. Nella maggior parte dei casi citati le cronologie di riferimento sono più tarde rispetto a Sa Osa, ma proprio a Santa Giusta nel contesto di materiali collocabili tra il VI ed il III sec. a. C., è stato ritrovato un frammento di ansa a gomito rovescio, inquadrabile nel Bronzo Finale-Prima Età del Ferro che si trova in buona associazione con una mandorla, appartenete ad un lotto di reperti organici trovati nel medesimo contesto, la cui datazione al C14, dopo la relativa calibrazione, è risultata 2742 +- 35 BP [1].
Le caratteristiche dell’ambiente interno al pozzo N di Sa Osa, con la presenza dei limi e dell’acqua, rendono assai simile la condizione di lavoro agli ambiti lagunari citati, dove l’esperienza sul campo ha dimostrato che operando in immersione, non escludendo l’acqua, si creano meno danni al materiale fragile, che oltretutto può essere rimosso e recuperato più agevolmente dai limi e dalle argille. Come è avvenuto nel caso di Sa Osa, è importante raccogliere insieme ai materiali immediatamente visibili, come le ceramiche, gran parte dei sedimenti, evitando assolutamente il lavaggio sul posto. Questa procedura molto delicata si affronta meglio in laboratorio, con l’ausilio di setacci a maglia molto fine, anche attraverso la flottazione [2] con cui si portano in galleggiamento i reperti più leggeri e minuti che sul campo andrebbero in gran parte persi. Procedendo in tale modo dai bustoni di sedimento prelevati dal pozzo N di Sa Osa, sono stati selezionati numerosissimi semi, prevalentemente d’uva, ma anche appartenenti ad altri frutti come il melone, i fichi e dei piccoli noccioli appartenenti forse a pesche. Per lo studio di questi materiali botanici sono stati coinvolti alcuni gruppi di ricerca specializzati, che si occuperanno dei caratteri morfologici necessari per la determinazione ma anche dello studio del DNA.



[1] La datazione é stata eseguita con l’Acceleratore di Massa (AMS) presso l’Università dell’ Arizona, Physics Dept. PAS 81 1118 E. 4th St. Tucson. Ringrazio particolarmente Carlo Lugliè che si é occupato dell’operazione e della calibrazione. (SI RICORDA CHE L’ACRONIMO B.P. STA PER BEFORE PRESENT, OVVERO RIPORTABILE AL TEMPO ATTUALE)

[2] Tutte le operazioni di cernita, registrazione e conservazione nonché quelle di restauro vengono eseguite nel Laboratorio della Soprintendenza al Porto di Cagliari.

 

La struttura

La bocca del pozzo è apparsa sotto 0,50/0,60 m. dal piano di campagna, essa si trova a ca. 2,00 m. sul l.m.m., ma nella fase d’uso, 3.000 anni fa, secondo i più recenti dati pubblicati da vari gruppi di ricerca si può supporre che il livello marino fosse inferiore di ca. 2,00/2,50 m. rispetto a quello attuale.
La conservazione dei reperti organici è stata favorita da alcuni fattori concomitanti accertati nell’ambiente di giacitura, essi possono riassumersi: nelle dimensioni della cavità della struttura, nel materiale costitutivo, nella costante presenza e riciclo dell’acqua e nella occlusione, presumibilmente veloce, della canna dopo l’abbandono. Il rapporto metrico tra la profondità del pozzo ed il suo lumen abbastanza stretto, riducendo lo scambio termico con la superficie, favoriva già nella fase d’uso il mantenimento di temperature sufficientemente fresche al suo interno, comunque inferiori rispetto a quelle esterne, anche nei periodi di maggiore calura. L’effetto fresco doveva essere accentuato dalla roccia arenaria in cui il pozzo è stato ricavato, inoltre, nel corso dello scavo si è notata la presenza di uno strato limo-argilloso plastico, spesso alcuni centimetri e aderente in modo uniforme alla parete a partire dalla profondità di –2,50 m., il deposito limo-argilloso costituiva una sorta di guaina naturale che poteva garantire una buona impermeabilità e qualità dell’acqua. L’esame fisico-chimico eseguito nel nostro laboratorio su un campione d’acqua prelevato durante lo scavo alla quota di –3,70 m. ha confermato un tasso di salinità molto contenuto, tra 550/600 μS alla temperatura di 20°C, associato ad un ph debolmente basico pari a 7,5, valori che rientrano tra i parametri previsti per l’acqua potabile.
Nonostante le indubbie difficoltà operative dovute allo spazio angusto e alla presenza dei fanghi e dell’acqua, lo scavo è stato effettuato con metodo stratigrafico, per cui si è mantenuta la corretta associazione tra i differenti substrati e la disposizione spaziale dei reperti giacenti nel pozzo. In modo schematico si propone la sezione longitudinale della canna, relativamente alla porzione scavata, in cui oltre alla successione stratigrafica dei vari substrati individuati si riportano le principali concentrazioni di reperti, con particolare riguardo ai materiali organici.
Partendo dall’alto, la sequenza dei differenti depositi comprende prima uno strato sabbioso asciutto, potente ca. 0,60 m., sotto di esso per altri 0,90 m. è presente un sedimento umido ancora in parte sabbioso ma misto a limo, il terzo substrato è completamente limoso, a granulometria progressivamente più fine, rapportabile fino ai valori micrometrici delle argille. La percentuale d’acqua cresce gradualmente fino a prevalere rispetto ai limi dalla quota dei –2,50 m., quella in cui sono stati ritrovati i primi legni. In tali condizioni l’ambiente interno al pozzo risulta completamente anaerobico, pertanto poco idoneo per lo sviluppo di aggressioni biotiche a danno dei reperti organici durante la giacitura. Se l’esame dei materiali dovesse rivelare la presenza di ife fungine nelle cavità dei legni o tracce inequivocabili di attacchi batterici, si potrebbe ipotizzare una parziale esposizione all’aria dei materiali dopo l’abbandono, e non la protezione repentina ad opera dei substrati già indicati.

 

 

I legni

Il materiale ligneo finora recuperato è purtroppo nella quasi totalità dei casi in frammenti, prevalgono le dimensioni minute, pochi centimetri di lunghezza, ma almeno 30 elementi raggiungono volumi più consistenti, tra i 10 ed 20 cm.. Tuttavia la rarità del rinvenimento di tali materiali rafforza la necessità dello studio e della relativa conservazione di questi reperti. La caratterizzazione delle numerose essenze sul piano statistico può consentire di accrescere la conoscenza delle presenze arboree durante l’età del Bronzo, come pure è interessante la conoscenza degli aspetti tecnologici strettamente legati ai sistemi di lavorazione del legno ed eventualmente alle selezioni ed alle scelte delle essenze in funzione delle singole caratteristiche meccaniche. Questo aspetto concettualmente evoluto è stato già riscontrato su alcuni campioni nel corso delle analisi preliminari. Quasi tutti i legni risultano lavorati, in alcuni casi si individuano sbozzature e intagli semplici, ma evidentemente funzionali all’uso, in altri la forma è ben rifinita a squadro e le superfici trattate con lisciatura fine. Sono presenti anche frammenti di ramaglie, alcune con tracce di fuoco altre completamente carbonizzate. Interessante il ritrovamento di sughero, alcuni elementi hanno spessore abbastanza elevato, ca. 5,5 cm., con tracce visibili di lavorazione.
Indipendentemente dalle quote di rinvenimento i numerosi frammenti lignei recuperati presentano in larga misura un livello medio di degrado, rilevato nel corso delle prime osservazioni con lo stereomicroscopio e durante le necessarie manipolazioni in laboratorio, in base alla consistenza del materiale. Alcuni elementi pure apparendo ancora voluminosi in realtà al tatto risultano molto morbidi, in questi casi, meno frequenti, il degrado è molto avanzato, la forma apparentemente immutata è mantenuta dalla elevata quantità d’acqua presente all’interno del legno.

In attesa di un intervento analitico sistematico che riguarderà la maggior parte dei reperti recuperati [1], finalizzato oltretutto alla messa a punto dei procedimenti di restauro più appropriati, in via preliminare, nel nostro laboratorio abbiamo fatto specifici esami su alcuni campioni per verificarne prima la specie legnosa, poi il massimo contenuto d’acqua e la perdita di sostanza delle pareti cellulari calcolati con la relazione di Grattan[2]che utilizza la densità del campione e la densità della specie legnosa di appartenenza. Le misurazioni hanno confermato valori di M.W.C.% tra 380% (legni mediamente degradati) e 580% (legni molto degradati), in sintonia con i valori di L.W.S.% risultati anch’essi mediamente alti.
Per quanto riguarda le specie legnose, l’accertamento dei principali elementi anatomici osservati sui tre piani canonici (trasversale, radiale e tangenziale) di numerosi campioni correlati alle rispettive quote di rinvenimento, hanno messo in evidenza la presenza di legni di latifoglie e legni di conifere ripartita equamente, sulla base di confronti con alcuni autorevoli atlanti e i campioni raccolti nella xyloteca del nostro laboratorio di restauro presso il Porto di Cagliari. Tra le latifoglie, sono stati identificati legni con vasi molto piccoli, diffusi e di dimensione poco variabile, non visibili ad occhio nudo, che riconducono ad alberi da frutto (f. Rosaceae). Fra questi alcuni sono lavorati,  incompleti e suddivisi in tre frammenti; è una sorta di listello a sezione perfettamente rettangolare i cui lati misurano 14,00 x 9,00 mm.. Ancora tra le latifoglie sono stati individuati legni di quercia, come il reperto n.15 (-4,20 m.), identificato come cerro (f. Fagaceae). I legni riconducibili alle conifere si presentano ugualmente in buona parte lavorati, tra i caratteri anatomici principali sono stati osservati i canali resiniferi e le punteggiature, elementi tipici dei legni di pino, ma è stato identificato anche l’abete (f. Pinaceae).

 



[1] Dopo i primi trattamenti conservativi e le analisi preliminari effettuate nel Laboratorio di restauro della Soprintendenza nel Porto di Cagliari, la maggior parte dei reperti lignei è stata consegnata al Centro di restauro del legno bagnato di Pisa-Soprintendenza per i beni archeologici della Toscana. Le analisi sistematiche saranno effettuate nei due laboratori di Pisa e Firenze.

[2] La relazione di Grattan e Mathias consente di ricavare la perdita della sostanza delle pareti cellulari (L.W.S.%), utilizzando la densità del campione (Rg) e la densità della specie lignea di appartenenza (Rgn), misurate con picnometro e bilancia elettronica al millesimo di grammo. La relazione è la seguente: L.W.S.% = (Rgn-Rg)*100 ∕ Rgn.

 

Resti faunistici

Non meno importante sul piano scientifico è il ritrovamento dei resti faunistici, terrestri e acquatici; al momento non si tratta di quantità elevate, come invece è avvenuto per i semi e i legni, ma anche in questo caso alcune prime identificazioni non difficili hanno già rivelato un altro filone di ricerca molto interessante. Tra le ossa, alcune appartengono ad apparati scheletrici molto piccoli, si individuano anche dei volatili, ma l’attenzione si è soffermata su alcune mandibole di dimensioni ridotte, comprese tra 10/18 mm., che sembrano appartenere al prolago sardo (Prolagus sardus)[1].

I resti ittici, anch’essi da studiare in modo sistematico ed esaustivo, presentano varie squame, vertebre e spine, di differenti specie, ma vi sono pure alcune porzioni ossee appartenenti a crani con fronte abbastanza eretta completa di mandibola, molto simile alle caratteristiche che si riscontrano nell’orata (Sparus Aurata. Anche per queste classi di reperti l’approccio multidisciplinare è fondamentale, la determinazione puntuale delle specie consentirà di espandere la conoscenza dell’habitat e delle abitudini alimentari dell’uomo nell’areale oristanese durante il Bronzo Recente-Finale.



[1] La determinazione a seguito di esame autoptico è stata fatta dal dott. Marco Zedda, Dipartimento di Biologia Animale dell’Università degli Studi di Sassari, che già si sta occupando dello studio dei resti ossei trovati nel contesto lagunare di Santa Giusta (OR).

 

Conclusioni

Questa comunicazione pur preliminare intende presentare il quadro delle problematiche certamente complesse che si pongono in un simile contesto di scavo, quando la perizia nella individuazione e nella raccolta dei reperti, specialmente quelli organici, se da un lato consente di ottenere importanti acquisizioni, dall’altro impone conseguentemente attenzioni, responsabilità e preparazioni specifiche che sole possono assicurare il mantenimento dei materiali e lo sviluppo della enorme quantità di dati ottenuti. D’altro canto la cura in fase di scavo non priva di giusta previsione e programmazione, se ci si accinge ad operare in simili contesti, è altresì indispensabile. I continui richiami al Laboratorio della Soprintendenza per i beni archeologici di Cagliari e la segnalazione di altri grosse realtà nel campo della conservazione come il Centro di Restauro dei legni bagnati di Pisa ed il Laboratorio di Restauro di Firenze, stanno ad indicare la volontà di collaborare e interscambiare conoscenze ed esperienze, evitando inutili e limitanti chiusure, per affrontare e risolvere nel miglior modo possibile le complesse scelte operative che attengono al trattamento ed alla conservazione di materiali unici e particolarmente delicati.

I disegni e le immagini a corredo sono dell’autore, che si ringrazia.