Oristano e il suo fiume

ORISTANO E IL SUO FIUME

La nostra città, pur non essendo prettamente “fluviale” al pari dei romani con il Tevere, i fiorentini con l’Arno o, attraversando le Alpi, i parigini con la Senna, ha da sempre mantenuto uno stretto legame col Tirso, quale fosse un fiume prettamente oristanese e che agli altri territori non avesse dato nulla.

 

I fiumi comunque, qualunque area antropizzata attraversino, che essa sia un minuscolo villaggio nella fitta foresta Amazzonica o una megalopoli come New York, hanno rappresentato e lo rappresentano ancora, una parte fondamentale della evoluzione dei popoli; essi descrivono una parte essenziale della loro storia che, nella buona come nella cattiva sorte si sono sempre dovuti rapportare con lui, sia che si trattasse di un tranquillo corso d’acqua di pianura o di un impetuosa e tormentata via d’acqua in vorticosa discesa dalle montagne.
Per dare un solo ma significativo esempio si ricorda cosa possa aver rappresentato il fiume Nilo per gli antichi Egizi in una delle maggiori culle della civiltà al mondo. Su questa falsariga lasciamo i nostri lettori liberi di viaggiare con il ricordo di quanti popoli hanno tratto la loro storia dai corsi d’acqua.
Noi cercheremo, nel nostro caso specifico, di ricordare il nostro modesto fiume Tirso che, in ogni caso, rimane con i suoi circa 160 chilometri di lunghezza, il più lungo ed importate corso d’acqua della Sardegna.
Il fiume Tirso nasce dall’altopiano di Buddusò e sfocia nel Golfo di Oristano dopo un percorso, come già detto, di 160 km circa. L’andamento del suo corso si differenzia notevolmente procedendo dalla sorgente alla foce, anche se è possibile individuare tre tratti connotati nella maniera seguente.
Nel primo tratto, compreso tra le sorgenti e la confluenza col Rio Liscoi, il corso del fiume presenta un percorso tortuoso con notevoli pendenze.
Nel secondo, tra la confluenza con il Rio Liscoi e il lago Omodeo, la pendenza si fa via via più dolce e il corso del fiume assume un andamento regolare.
Nell’ultimo, attraverso la piana di Oristano, il corso del fiume presenta pendenze minime ed è caratterizzato dalla presenza di grossi meandri.
I principali affluenti del fiume ricadono tutti nella parte alta e media del corso, e drenano talvolta dei sottobacini particolarmente significativi tra cui possono citarsi il Fiume Massari, il Rio Mannu di Benetutti, il Rio Liscoi e il Rio Murtazzolu.

 

 

Origini del nome

I più antichi riferimenti letterari sul fiume Tirso si devono a Pausania (II sec. d. C) ma, mentre Tolomeo e Antonino riportano notizie di carattere geografico, Pausania, nella Descrizione della Grecia, nel libro X, riferisce che: "Dopo la distruzione di Ilio, alcuni dei Troiani fuggirono ed anche quelli che si erano salvati con Enea. Parte di costoro, spinti dalla tempesta, capitarono in Sardegna e si mescolarono ai Greci che si erano insediati l'à. Il fatto che tutte e due le parti erano ugualmente agguerrite fece in modo che i Greci e i Troiani non venissero a conflitto; ed infine il fiume Thorso che divideva i loro territori scorrendovi in mezzo, incuteva in ambedue timore per il passaggio."

Ancora in epoca moderna, da uomini di cultura sardi come il cinquecentesco Gian Francesco Fara nella sua opera Chorographia Sardiniae della fine del XVI secolo; prima era comunemente chiamato Riu de Aristanis o molto genericamente Riu Mannu.

Il nome del fiume è detto Thyrsos da Tolomeo (II secolo d.C.) ovvero Tyrsou potamou ekbolai, Le bocche del fiume Tirso e ancora il Tyrsus, Caput Tyrsi o sorgente del Tirso; ancora dall’Itinerarium Provinciarum Antonini del II - III secolo d. C. è da connettere l’appellativo greco Thyrsos. Questa ultima è una variante di tyrsis, ovvero “torre” pare lecito dedurre che il nostro fiume sardo abbia tratto il suo nome dai numerosi nuraghi che punteggiavano il suo basso corso.

E’ invece popolare e originario a Bidonì e Sorradile il nome con cui viene chiamato il fiume, ovvero Colocò e Cologò, quasi certamente di origine protosarda; esso è verosimilmente da connettere con l’altro idronimo Su Cologone dal latino “colare” ovvero filtrare/passare/colare quindi, prudentemente, Colocò o Cologò significa “colatoio” o “canale”.[1]

 

 



[1] Massimo Pittau sull’origine dei toponimi sardi.

 

 

Il rapporto tra uomo e fiume

In Sardegna il rapporto tra paesaggio, ambiente e attività umane è sempre stato molto stretto; osservazioni queste che ci permetteranno di cogliere l'importanza di un corso d'acqua che, in ogni tempo, è stato croce e delizia per l'esistenza delle popolazioni stanziate nelle sue vicinanze; la vena pulsante di vita che ha sempre condizionato l’esistenza dei popoli insediati nella vasta zona, e ciò viene confermato anche dalle testimonianze archeologiche e storiche, per la cui costruzione d'altronde, sono stati utilizzati quasi sempre i materiali presenti in loco.
Rapporto che nel territorio oristanese è ancora più evidente che altrove, tanto che la distribuzione dei resti archeologici risponde a precise esigenze geografiche e a motivazioni più genericamente antropiche.
La tremenda estate di circa venti anni orsono, tra le tante disgrazie, ha permesso un viaggio nel passato di circa 80 anni; infatti la quasi totale scomparsa del Lago Omodeo ha infatti ricostruito l'originale idrografia del Tirso, serpeggiante nella grande vallata; il fiume scorre dapprima nella valle di Ottanta per poi entrare nella gola di Corrugosu, riceve quindi le acque del Taloro e forma attualmente il Lago Omodeo.
Nella valle del Tirso non doveva quindi mancare l'acqua e questo fatto, unito alla fertilità dei terreni presenti, ha favorito lo sviluppo di un'attività agropastorale sicuramente molto sviluppata anche in passato.
Ma la nostra lunga via d’acqua, nel corso dei secoli non sempre è stato benefica e fonte della fertilità dei terreni che formano la sua golena.
Per certo potremmo immaginare l’utilizzo delle acque, non irreggimentate dall’attuale sistema di argini ma soprattutto per la totale assenza delle dighe presenti numerose durante la sua corsa verso il mare, già da epoche preistoriche.
Insediamenti neolitici sulle sue sponde da cui trarre sostentamento, sotto forma innanzitutto dalla imprescindibile acqua con cui dissetarsi piuttosto andare cercarla nelle sorgenti interne, ma da tutto quanto da essa ne deriva in termini vita sociale quali sono le attività legate alla agricoltura e all’allevamento che sono state la molla della rivoluzione neolitica che vede l’uomo passare da una vita nomade a quella più stanziale.
Anse riparate del fiume che diventano delle vere e proprie peschiere; prova ne sono i ritrovamenti archeologici di pesi da rete e di resti di pasto formati da conchiglie fluviali.
Le naturali e stagionali esondazioni favorivano la crescita degli alberi e da lì la ricchezza di legname utile per la costruzione delle capanne e come inesauribile fonte di legna da ardere…quella stessa legna che in età nuragica alimenterà i crogioli delle officine dei maestri metallurghi per la fusione dei bellissimi bronzetti.
Durante la presenza fenicia in Sardegna possiamo seguire la loro penetrazione all’interno dell’Isola di questi audaci marinai/commercianti proprio attraverso la risalita del corso del fiume fino alle sue scaturigini attraverso il ritrovamento di pregiati  reperti archeologici comprovante gli scambi con i nostri antenati.
In età romana assistiamo alla costruzione di terme, da cui il Salus per aquam…la salute attraverso l’utilizzo delle acque fino al moderno acronimo di SPA, come le attuali terme di Fordongianus e i vicini resti di quelle più antiche.  Ancora la viabilità stradale che interconnetteva le città che si trovavano o lungo il corso o nelle immediate vicinanze.
Per arrivare a tempi relativamente più vicini, il basso corso del fiume verosimilmente proprio nell’area della foce, vede il Tirso come porta di accesso nella clamorosa invasione dei Sodraus grogus dell’inverno del 1637, dove Oristano su invasa e saccheggiata da migliaia di soldati francesi; la stessa foce assistette alla disordinata fuga dei medesimi, incalzati e poi scacciati dall’esercito sardo-spagnolo.
Ma il tributo più pesante da pagare che la nostra città aveva con il suo vicino liquido era costituito dalle frequenti esondazioni che causavano spesso distruzione e perdite di vite umane.

Memorabile fu l’esondazione che si abbatté su Oristano nel dicembre del 1860 e storicamente conosciuta con l’appellativo di S’unda Manna (da non confondere con S’unda manna con cui la fantarcheologica chiama l’onda che si sarebbe generata da un grande tsunami e che sarebbe stata la causa della cessazione della civiltà nuragica).
In quell’anno un metro e mezzo di acqua invase la Piazza Roma, allora Piazza Mercato, centinaia di case interessate dall'inondazione, i terreni del cosiddetto Bennaxi, ovvero i fertilissimi terreni lambiti dalle sponde del fiume e notoriamente quelli col maggiore valore economico, furono completamente allagati, le attività commerciali in ginocchio, gli abitanti nella più completa disperazione, ma, fortunatamente nessuna vittima in città; a questi si devono aggiungere gli enormi danni che si ebbero nella zona della foce ove erano presenti le fiorenti peschiere.
Per quanto attiene i danni alle colture del Bennaxi un altro importante elemento da considerare fu quello di valutare i danni che una inondazione può provocare per il riutilizzo dei medesimi; in un terreno totalmente pianeggiante come il nostro Campidano il defluire delle acque avviene con estrema lentezza e così dicasi per potersi completamente asciugare rendendo pressoché impossibili le normali operazioni quali l’aratura, la fresatura e la seguente semina, tanto da poterli adoperare solo come pascolo.
Ai giorni nostri il Tirso potremo considerarlo come l’ombra di stesso rispetto alla potenza delle sue acque in tempi antichi; la grande diga Eleonora imbriglia la maggior parte delle acque meteoriche che affluiscono nel suo gigantesco bacino. Solo quando per sicurezza vengono aperte le sue paratie, in occasione di eventi piovosi di grande intensità, ci ritroviamo l’alveo totalmente invaso ma contenuto nel sistema di argini costruiti oramai un secolo orsono.