Antiquarium Arborense

L'Antiquarium Arborense

Attraverso le parole del Professor Peppetto Pau ricordiamo la genesi del museo Antiquarium Arborense, dall’acquisizione della collezione alla sua prima collocazione nella attuale Via Ciutadela de Minorca già Via Vittorio Emanuele e ora sede della Pro Loco cittadina.
Un viaggio nella memoria dei tanti che vollero anche la città dei Giudici d’Arborea dotata di uno scrigno per contenere i preziosi tesori del nostro antico passato.

 

Quando il primo Sindaco democraticamente eletto Davide Cova, nell’immediato dopoguerra mi affidò l’incarico di ricostruire l’Antiquarium Arborense ebbi la prima sorpresa nell’apprendere che tutto il prezioso materiale dell’Antiquarium era stato trasferito a Seneghe.
Si riteneva Seneghe un luogo tranquillo né si temeva che il risveglio generale investisse anche il campo archeologico, suscitando quella spasmodica ricerca che ha costituito per anni la croce e la delizia di molti pseudo-archeologi pericolosissimi per l’Archeologia e per il suo inestimabile patrimonio giacente sotto la terra, sotto la sabbia, sotto le rocce.
Il Sinis, che dal secolo scorso[1], dopo le fortunate esperienze di Lord Vernez e i più fortunati saggi di scavo offerti a Carlo Alberto e al Principe Ereditario divenne ancora il pensiero dominante di quella vasta categoria di ricercatori, di scavatori, di clandestini, di sciacalli.

Erano ormai lontani i tempi degli scavatori del nuovo Eldorado che, quando rinvenivano uno scarabeo, strappavano coi denti il castone d’oro e lo custodivano gelosamente mentre gettavano in mare con disprezzo lo scarabeo egizio: “scravaioni pudesciu”, scarabeo fetido: E infatti quell’animaletto dalle ali ripiegate sul dorso erano avezzi a vederlo aggirarsi misteriosamente attorno alla pallina di sterco cavallino fresco.
Ma quale è stata in sintesi, la vicenda dell’Antiquarium Arborense, già collezione Pischedda?
L’Avvocato Efisio Pischedda fu un archeologo mancato né fu in verità un principe del foro. Ebbe dell’archeologo la passione, assolutamente disinteressata per il patrimonio archeologico nascosto nella nostra terra.
Nativo di Seneghe si trasferì giovanissimo a Oristano, dove alternò alla professione forense il fervore della ricerca archeologica.
E fu fortunato. Lo fu perché, una volta sparsasi la voce della sua passione di raccoglitore di reperti tratti dal seno della terra, in tempi di miseria, di oscurantismo, e di profonda ignoranza, tutto il filone archeologico si convogliò verso Casa Pischedda.

Io ricordo che le mie zie paterne, che ebbero modo di conoscere la mia giovanile febbre archeologica, mi chiamarono “dottor Pischedda”.
Mi raccontarono che un parente cabrarese aveva portato in casa loro un cestello pieno di cozzas de oru. Le cozzas non sono che i lingotti.
Mio nonno, le mie zie e gli zii, guardarono con indifferenza quel tesoro e mio nonno decretò: - Al Dottor Pischedda-.
Non che il nonno disprezzasse quel metallo, anzi lo teneva in gran conto, ma preferiva avere a che fare con l’oro coniato in moneta, così suadente, così nobile, così facilmente trasformabile in frumento, in bestiame, in formaggio.
Ma specialmente cercava di non trattare affari col parentado.
Fu così, in una atmosfera di cecità e di sprovvedutezza che il Pischedda raccolse migliaia di reperti che abbracciano un vasto arco di tempo dal neolitico al bizantino.
Questa raccolta non fu consacrata da un adeguato rigore scientifico perché solo il Pischedda, che a suo modo s’era pur creato una impalcatura archeologica, trafficava tra quei tesori e, per nostra fortuna, documentava i singoli pezzi con l’indicazione del luogo di rinvenimento.
Questo fu il suo gran merito: questa indicazione infatti è stata utile anche recentemente quando si è elaborato il catalogo scientifico della raccolta. Purtroppo, per un complesso di fattori che qui non è il caso di trattare, gran parte del materiale più prezioso, scomparve già prima che gli eredi prendessero la saggia decisione di cedere la raccolta al Comune di Oristano.

Era l’anno 1938. Fortuna vuole che il cinquantenario della fondazione dell’Antiquarium viene celebrato con la inaugurazione della nuova sede. Il vecchio palazzo Parpaglia che fu già abitazione del Senatore bosano, fu gabinetto dentistico, scuola elementare, scuola d’arte, casa del fascio e ancora scuola.
Quando l’Ing. Davide Cova mi spedì a Seneghe sopra un camioncino per rintracciare e riportare a Oristano i reperti dell’Antiquarium, io venni accolto dal Sindaco che era proprio un discendente del Pischedda.
Questi ordinò al messo comunale di accompagnarmi nei locali del vecchio municipio. Era una vecchia casa nella periferia del paese. La porta, semiscardinata e fermata con fili di ferro, venne aperta subito e mi apparvero i locali interni, antri, umidi e bui.
Sulla sinistra del corridoio, si apriva una porta anch’essa assicurata con il fil di ferro. Nel vasto stanzone, che attraverso un’altra porta anch’essa sgangherata, comunicava col cortile, erano ammucchiate le casse che raccoglievano il tesoro Pischedda.
Erano state chiuse e assicurate con fil di ferro e dotate di sigillo della Soprintendenza ai beni archeologici della provincia di Cagliari.
“I soliti ignoti” avevano aperto con calma quelle casse. Ne erano emerse le urne cinerarie in ceramica e “i soliti ignoti” non le ritennero degne di essere prese in considerazione.
Per terra, proprio sopra il rigagnolo, che da una ampia breccia del tetto al piano superiore attraversava il pavimento, scendeva e serpeggiava sul terriccio dell’antro, là era una cassetta. Intesi subito quale fosse il contenuto e fu infatti la prima ad essere salvata.
Era con me l’indimenticabile Francesco Soldati della Soprintendenza di Cagliari. Fu lui a dirmi in un soffio, con la bella parlata toscana: bene…Bene…Ha scelto il meglio! E’ la cassetta delle gemme.
L’Antiquarium fu così ricostruito, fu dotato di un’altra stanza già sede dell’Economato del Comune di Oristano e accolse visitatori illustri e scolaresche, turisti e studiosi, fino al giorno in cui “i soliti ignoti”, (si fa per dire…perché non sono del tutto ignoti), non hanno provveduto all’introdursi di notte nei locali e a rastrellare quanto vi si custodiva di meglio: gemme, oggetti di ornamento, avori, argenti e oreficeria scomparvero per sempre (era il settembre del 1965).
Oggi l’Antiquarium Arborense inizierà vita nuova in una degna sede.
A tutti il plauso e il ringraziamento del vecchio “conservatore” che spera di vivere ancora almeno fino a quando l’opera non sia portata a termine.
Grazie ancora a tutti quelli che guardano con comprensione il lavoro silenzioso e massiccio di un gruppo di studiosi.

Purtroppo il Professor Peppetto Pau, come affettuosamente veniva chiamato da tutti, ci lasciava improvvisamente e tragicamente il 26 luglio del 1989, lasciando un vuoto profondo nella vita culturale oristanese, vissuta a 360 gradi tra archeologia, storia, poesie e cucina. Mi piace ricordarlo ulteriormente attraverso i pochi versi di una sua opera:

"Portatemi un giorno sulla collina del Sinis, davanti al Mediterraneo. Mettetemi sotto la nuca una conchiglia verde, perché la voce del mare mi canti all'orecchio. Ch'io dorma là tra lentischi, cisti e asfodeli col suono delle onde dell'arenaria sotto l'ala dei falchi e il volo ampio e molle dei gabbiani. Ch'io dorma sulla pietraia del Sinis".

 

 



[1] Il professor Pau scrive questo contributo sul numero 13/14 dei Quaderni Oristanesi datato maggio 1987.