Ma dal suo nuraghe si vede il mare?

Ma dal suo Nuraghe si vede il mare?

Oggi guarderemo il mare non comodamente seduti sotto l’ombrellone, ma dall’alto dei numerosi nuraghi che svettano nei litorali dell’isola e, soprattutto, nel nostro vicino Sinis.

Se si fossero applicati allora gli attuali vincoli paesaggistici in materia di distanze delle costruzioni dal mare, alcuni dei nostri antenati probabilmente avrebbero passato seri guai e avuto indicibili difficoltà a costruire le svettanti torri che ancora punteggiano i litorali nei millecinquecento chilometri di costa sarda.
Prendendo per buono quanto questo straordinario popolo ha lasciato di sé per quel incredibile testimonianza architettonica con un numero mai ufficializzato di oltre settemila torri litiche, potremmo vedere che non poche di esse, se non proprio costiere al pari di quante verranno costruite a partire dai primi decenni del 1500 dagli spagnoli, sono poste nell’immediato entroterra e, a volte, non in posizione dominante presso un’alta costa.
A rinverdire il ricordo del gran numero dei nuraghi “marittimi”ci aveva già pensato diversi anni fa quel grande della ricerca sottomarina sarda che si chiamava Nicola Porcu, rivisitando le carte dell’I.G.M. che, da una levata all’altra, omettevano di volta in volta la presenza di non pochi monumenti; mettendo insieme le tavolette “al 25000” dei territori costieri, ne ha tratto una fitta rete di torri tenute insieme da collegamenti, non tutti attualmente evincibili, ma che certamente erano incolati da ferree logiche di distribuzione e controllo del territorio.
A lui si devono non poche scoperte sottomarine come i primi ritrovamenti ceramici presso la laguna di Santa Gilla, nonché la scoperta del Portus Herculis di Tolomeo nelle acque di Capo Malfatano che gli hanno valso il titolo di Ispettore Onorario della Soprintendenza, all’epoca del grande archeologo Ferruccio Barreca.
Abbiamo già visto invece un popolo e una Sardegna aperta ai commerci delle sue materie prime attraverso la propria marineria, già a partire dal Neolitico e dalla successiva epoca che vedeva le aristocrazie isolane impegnate in quel “circuito dei metalli” con gli Etruschi in prima fila ed i Fenici a seguire.
Equazione logica diventa quella traffici = approdi; ma questa è tutta un’altra storia che ci vedrà, probabilmente, impegnati in una prossima occasione.
Il discorso che ora si vuole tentare è quello di osservare ed esaminare il territorio occupato dai sardi nella fascia litoranea; troppo ampio sarebbe prendere in considerazione l’intera regione pertanto si è ritenuto sufficiente esaminare l’Oristanese e il Sinis come territorio campione.
Questi cantoni, ammettendo che si possa così considerare, per quanto attiene il Sinis come l’intera superficie che geograficamente ha inizio con l’omonima penisola che si distende per circa 220 Kmq verso Nord, fino alle pendici del Montiferru includendo, in una sorta di “Grande Sinis”, la lussureggiante e immensa pineta di Is Arenas e le candide falesie calcarenitiche fino a Santa Caterina di Pittinuri, nonché la vasta pianura e la porzione costiera che caratterizza la città di Oristano.
Il Sinis ha, in rapporto alla sua estensione, una delle più alte densità di nuraghi dell’isola secondo le indicazioni di Salvatore Sebis [1], di Anna Depalmas [2] e Alessandro Usai [3], i tre archeologi che in anni di studi  e sistematica investigazione hanno analizzato a fondo tutti gli aspetti di questa zona, fino a censirne ben 106, con un rapporto di un nuraghe complesso ogni tre nuraghi semplici monotorre, a riprova dell’importanza economica che tali territori rivestivano e dove è possibile individuare i diversi momenti di vita sociale, da quelli religiosi e spirituali, legati alle celebrazioni rituali collettive in onore alle proprie divinità che ci vengono ricordati da toponimi come Maimone (una delle candide spiagge dalla sabbia di granito) e Funtana Meiga, Fontana Magica o Medica forse per le caratteristiche salutifere della sua acqua…a quelli civili legati alle attività quotidiane attraverso i ritrovamenti di macine e macinelli, di pesi da telaio e pesi in piombo adatti al commercio di prodotti raffinati ed altri oggetti tipici della cultura materiale dei suoi abitatori.
Sempre a riguardo del numero di monumenti censiti è sempre bene ricordare dei tanti nuraghi che, nel corso dei secoli, sono stati “smontati”; le intense attività cerealicole a cui furono sottoposti i terreni e di cui rimangono le memorie nei nomi di aree come Monti Trigu, Monti Palla, Monti Prama e Cuccuru Mannu, a partire dal periodo punico e romano e sino ai nostri giorni, hanno determinato nella maggioranza dei casi la rimozione dei cumuli artificiali e lo smantellamento delle strutture architettoniche presenti, per riutilizzare il materiale litico per scopi di tipo abitativo o ad altro ancora, in attività comunque spesso legate, direttamente o indirettamente, all’agricoltura e alla pastorizia, risorse che insieme alla pesca costituivano la caratteristica economica che il territorio ha sempre conosciuto.
L’età contemporanea ha conosciuto inoltre la fase di attuazione della legge sulla chiusura dei terreni, conosciuta come l’Editto delle Chiudende, dove appunto per recuperare il materiale utile ad innalzare i muretti a secco per delimitare i tancati, non ci si poneva scrupolo a radere al suolo il nuraghe più vicino, al pari di frantumare i massi dei monumenti per ottenere la ghiaia per le massicciate della nascente ferrovia reale in età Sabauda.
Iniziamo il nostro viaggio costiero partendo da Sud verso Nord. Il primo nuraghe “vista mare” è quel che resta del Baboi Cabitza, sotto l’apprestamento di una postazione antiaerea della seconda guerra mondiale; lo troviamo dominante nel Capo San Marco a 56 metri s.l.m. e, a meno di una trasformazione geomorfologica naturale, è attualmente inserito in una zona priva di alcuna sorgente d’acqua dolce battuta dall’incessante vento di maestrale; un vero custode che osserva gli avvicinamenti al golfo di Oristano.
Proseguendo l’esplorazione del Sinis risaliamo un pianoro alto poco meno di cento metri, denominato Su Pranu. Le carte mostrano un’area punteggiata di monumenti su cui il Nuraghe S’Argara domina dall’alto dei 93 metri di quota; alcuni di essi come il Suergiu, Sa Carroccia, il Piscina Rubia, il Muras, S’Uraccheddu Piudu godono di una splendida vista Mare di Sardegna mentre molti altri devono accontentarsi di un orizzonte caratterizzato dall’imponente  presenza della grande e pescosissima laguna di Cabras (a tale proposito gli abitanti di questo vivace centro di pescatori sogliono dire che loro sono possessori di ben tre mari: Su Mari Biu, Su Mari Mottu e Su Mar’e Crabas: il mare vivo; il mare morto e il mare di Cabras, per far intendere l’estensione del loro stagno).

Ma chi più di tutti esalta la vocazione del nuraghe “marittimo” è quanto resta di quello costruito sull’Isola di Malu Entu, (si vuole qui riproporre il corretto toponimo dell’isola prima della storpiatura lessicale dovuta ai cartografi ottocenteschi che l’hanno ribattezzata Maldiventre o Mal di Ventre) al largo della costa centro – occidentale di fronte al maestoso Capo Mannu.
Questa isola, di forma allungata in direzione all’incirca NE – SO, è praticamente piana se si esclude un debole rilievo di 18 metri s.l.m. malgrado la formazione quasi totalmente granitica, ospitava nella parte centro orientale della sua costa appunto un nuraghe di semplici dimensioni diventato poi,  un ottimo dispensatore di materiale da costruzione per quanti nei secoli a venire trovavano nell’isoletta il luogo ideale per brevi soggiorni, dai Fenici della metà dell'VIII secolo a C. , ai romani che vi costruirono una modesta villa maritima, agli arabi che nel 1580 guidati dal Pascià di Algeri utilizzarono l’isola come luogo di temporanea prigionia per circa 700 sardi rapiti dai vicini villaggi durante un’incursione nell’entroterra e poi rivenduti al libero mercato dopo la mancata negoziazione per il loro rilascio e infine ai pastori che per decenni utilizzarono le scarse piante erbacee come pascoli delle greggi di ovini, trasportati su grandi barche da pesca nei periodi freschi.

Anche l’area del golfo di Oristano reca i segni della presenza delle torri; la ricerca archeologica ci rimanda ad un insediamento nell’area della attuale Torre Grande. Lo stesso possente baluardo spagnolo grava su un antico pozzo d’acqua dolce a poche decine di metri dalla battigia che ben si presterebbe ad essere collocato all’interno di un nuraghe, come è nuragico quanto resta di un altro pozzo poco distante e posto ai margini della attuale pineta denominato Is Arracus.
Restiamo all’interno del golfo e addentriamoci nel dedalo di stagni e canali che caratterizzano la parte interna del Capo della Frasca.

Troviamo qui, a breve distanza l’uno dall’altro tre monumenti, il Priogosu, Is Cabis e quello che tanto interesse ha suscitato allo scrivente come S’Ungroni di Santadi.

In questo nostro breve viaggio non abbiamo mai affrontato le questioni che riguardano le modificazioni geomorfologiche della linea di costa nel corso di questi ultimi millenni ma, giusto per giustificare l’attuale stato di semisommersione del nuraghe richiamato dobbiamo invece far riferimento all’evidente fenomeno dell’arretramento della linea di costa dovuto sia all’inesorabile erosione (quello stesso arretramento e interrimento che ha poi decretato la fine dell’emporio della vicina città di Neapolis e di Othoca) e del lento innalzamento del livello medio del mare in tutto il bacino del Mediterraneo, di quel tanto che basta per coprire d’acqua molte delle antiche strutture fatte dall’uomo.
Le nostre esplorazioni potrebbero continuare fino a percorrere l’intero periplo della Sardegna, scoprendo i nuraghi come le perle di una collana a cui si è rotto il filo; e, come appunto le perle, essi sono altrettanto preziosi per tutti coloro i quali sanno porsi le giuste domande sul loro utilizzo, tenendosi ben lontani da fuorvianti teorie “Atlantidee” e trovando in essi nuove chiavi di lettura tendenti a restituire al popolo dei nostri antenati costruttori e navigatori quella giusta collocazione che meritano all’interno di un panorama culturale di ampio respiro mediterraneo.

Le immagini a corredo sono tratte dal web e prive di copyright e dall’archivio di Lucio Deriu.



[1] Salvatore Sebis in La ceramica racconta la storia. 1998

[2] Anna Depalmas: Evidenze e apparenze del paesaggio attuale per una lettura del territorio nuragico in Atti Ottavo Incontro di Studi Preistoria e Protostoria in Etruria. 2006.

[3] Alessandro Usai in Minoja/Usai: Le sculture di Mont'e Prama. Contesto, scavi e materiali. 2014.