Il Marchesato d'Arcais Immagine tratta da:Anna V. Manca, Il Marchesato d’Arcais nel sistema feudale sardo, Edizioni S’Alvure 1993

Il Marchesato d’Arcais

I settanta anni che si andranno a raccontare, esattamente dal 1767 al 1837 sono quelli che, quasi fosse un romanzo storico, interessarono la vasta zona compresa nel feudo di Arcais ovvero quello stesso territorio che corrisponde all’attuale Oristanese.

 

Nella lettura non sfuggirà la drammaticità di alcune situazioni particolari e l’ingiustizia sostanziale e spesso aberrante che quel sistema feudale consumò ai danni delle nostre popolazioni, anche perché inferto dopo quasi trecento anni, e cioè dal 1478, anno in della sconfitta di Leonardo Alagon marchese di Oristano, non più assoggettate ad un signore feudale.

La successiva concessione Sabauda al marchese di Arcais segnò quindi, una violenta, improvvisa e insanabile rottura con le popolazioni ed ebbe come prima conseguenza l’immediata decadenza delle attività economiche e quindi l’interruzione quasi totale di quello sviluppo che lentamente anche se faticosamente era andato affermandosi fino a quel momento nell’Oristanese.

Ma chi era il Marchese d’Arcais? Il suo nome si fonde con la leggenda che lo vuole come povero capraio nel Sinis e, proprio durante la sua attività di sorveglianza del gregge, si dice seduto sulle rovine di un nuraghe (sempre la leggenda identifica il nuraghe Angius Corruda tra San Salvatore e San Giovanni) intento a lanciare delle pietre trova un tesoro; si favoleggia della classica pentola ricolma di monete d’oro…

Trattandosi dei primi decenni del 1700 personalmente escluderei che possa aver trovato un tesoretto consistente in reperti archeologici del tipo di bronzetti d’età nuragica, ancora pressoché sconosciuti e poco valutati nel mondo del collezionismo; del resto è altresì noto come l’oro non fosse parte integrale della cultura materiale di quell’epoca storica; alla luce di tutto ciò il pensiero va ad un possibile cospicuo ritrovamento di gioielli fenici e/o punici, ben noti negli scavi che interesseranno la vicina area di Tharros…sempre che si propenda a credere che l’ascesa economica di Damiano Nurra sia dovuta a questa fortuita circostanza.

Il Nurra, ormai divenuto ricco possidente e latifondista chiederà al Viceré di Sardegna di intercedere affinché il governo gli conceda l’infeudazione della Penisola del Sinis con il vincolo di insediarvi una nutrita colonia di corallari e agricoltori in cambio della cessione dei redditi di uno dei tre Campidani, in quella tradizione che aveva già vissuto la Sardegna dopo la conquista da parte dei Sovrani Aragonesi, i quali, per garantire il governo con una certa tranquillità sarebbe stato necessario legare a sé, con vincolo di fedeltà e con benefici coloro che avevano aiutato nell’impresa. In altre parole il Re si garantiva con dipendenti fedeli e sicuri il mantenimento del potere, e questo tipo di feudo appariva certamente il più adatto per il raggiungimento di tale scopo.

Si è già detto come gli interessi in gioco fossero molto consistenti poiché, già allora, l’Oristanese era la zona più fertile della Sardegna e tale rendevano la sua posizione in perfetta pianura, la vicinanza al mare, la centralità geografica nell’Isola.

Damiano Nurra per prima cosa avanzò non pochi rilievi al progetto generale di infeudazione della Sardegna presentando, in data 20 luglio 1767, un differente progetto contenente diverse proposte[1]. Dopodiché seguì l’approvazione del Re che la concesse con il Diploma in data 23 agosto 1767.

 

Di seguito citeremo alcuni degli obblighi a cui vennero sottoposti i feudatari; tali obblighi vennero indicati sotto la denominazione di comandamenti dominicali.

Tali comandamenti vennero pressoché eliminati col pregone[2] del 1800, però, nonostante l’esistenza di questo pregone, gli abusi continuarono ed i servizi dominicali aboliti furono sostituiti con prestazioni anche più gravose.

Un tributo personale di una certa consistenza era il cosiddetto diritto di gallina che alcuni autori vorrebbero far risalire allo ius primae noctis e che sarebbe un compenso al barone per la rinuncia a questo diritto.

Quanto ai tributi reali, cioè a quelli che erano collegati con la proprietà immobiliare, occorre distinguere tra quelli che si riscotevano per i terreni coltivati e coltivabili e quelli che si percepivano invece per l’utilizzo a pascolo dei terreni del demanio baronale.

Il più notevole dei primi è dunque il cosiddetto llaor di Corte (grado di Corte); esso fu di grande importanza perché dette luogo alle controversie più interessanti tra il barone e il vassallo. Consisteva, per il vassallo oristanese, nel pagamento di una quota parte del grano seminato ed era anche uno dei tributi più ingiusti in quanto non teneva conto del complessivo ammontare del raccolto. In altre parole, anche in caso di cattiva annata i vassalli erano costretti a pagarlo…era genericamente chiamato “terratico”.

Altri tributi si riscotevano sui prodotti dell’agricoltura e se ne possono indicare alcuni come il diritto di vino che doveva essere corrisposto dai vassalli mediante il pagamento di 10 soldi per ogni “misura”; tale tributo gravava su tutto il vino che si produceva nei tre Campidani; quello di mosto e quello di vigna o di pianta, che consisteva nel pagamento di mezzo reale per ogni vigna novella non portante ancora frutto; il diritto d’orzo, di paglia; il diritto di forno che doveva essere corrisposto solamente dai vassalli di Siamanna e Siapiccia.

Altro importante diritto era quello di pascolo o segno. Vi erano obbligati tutti i proprietari del bestiame, sia di vacche che di pecore, che pascolavano nei territori detti volgarmente paberili dei tre Campidani. Vi si aggiungeva un pari diritto di pascolo e segno che doveva essere corrisposto per il pascolo d’erba nel Monte Arci.

Altro tributo era il cosiddetto deghino del porco, ossia il diritto che si arrogava il Marchese di prelevare un capo ogni 10 porci che venivano introdotti al pascolo nel succitato monte.

Ancora il diritto di sbarbagio; era questo un tributo altrettanto ingiusto perché secondo un sistema aberrante, venivano a pagare la stessa tassa coloro che possedevano 10 o 15 animali e coloro che ne possedevano 200 o 250 e più.

Erano comunque questi tributi di poco conto ma nel complesso avevano la capacità di arricchire il feudatario e di finire di spogliare i vassalli.

Altri diritti reali possono essere identificati fra quelli di fonda e puntaloru per la vendita di vino nelle taverne, quello di carneseria o “macelleria” chiamato anche tauleddu, oltre quelli ai quali erano obbligati i vassalli quando pescavano negli stagni, nei fiumi e nelle tonnare.

Esistevano poi dei tributi che in pratica non erano catalogabili ma sortivano di volta in volta dalla fantasia del Signore; tra questi si riconosce il “presente” che era un dono di natura ossequiale dovuto in alcune speciali ricorrenze quali il Natale, Pasqua, Quaresima o carnevale.

A proposito del feudo di Arcais il Procuratore dei tre Campidani, il Notaio Francesco Cavo, in una supplica del 3 agosto 1807 inviata alla Regia Segreteria di Stato, si lamentava che “che i vassalli non potendo reggere ai pagamenti feudali, andavano annualmente cambiando domicilio in numero considerevole, in guisa che tra otto o dieci anni sarebbe stata interamente spopolata una delle più fertili parti del regno”.

In conclusione, si piò affermare che il territorio del Marchesato di Oristano, soffrì nel sistema feudale, né più né meno gli stessi mali che soffrirono in altre zone.

 

Bibliografia: Anna V. Manca, Il Marchesato d’Arcais nel sistema feudale sardo, Edizioni S’Alvure 1993.


[1] Come sempre in questi brevi spazi dedicati alla nostra storia non entreremo nei particolari; al proposito si invitano i Gentili Lettori interessati agli argomenti trattati a seguire le indicazioni bibliografiche presenti e reperire i testi integrali per un più completo approfondimento presso la nostra bellissima Biblioteca Comunale).

 

[2] Nei primi del 1800 con il termine PREGONE si intendeva qualsiasi bando pubblico di interesse di tutta la popolazione emanato dalle cariche istituzionali locali in nome e per conto dell’amministrazione del villaggio o delle istituzioni superiori.